La Corte suprema salva ancora l'Obama Care. Il 25 giugno, con la sentenza pronunciata nel caso "King vs. Burwell", la Corte suprema degli Stati Uniti ha salvato l’Affordable Care Act, la riforma sanitaria voluta da Obama nel 2010, considerata il più importante risultato di politica interna conseguito dall’attuale amministrazione. La decisione, adottata col voto di 6 giudici contro 3 e redatta dal presidente della Corte, John Roberts, ha confermato la legittimità dei sussidi federali erogati alle persone con un reddito medio-basso per l’acquisto delle polizze sanitarie. Il ricorso era stato promosso per contestare la validità degli aiuti federali da quattro residenti della Virginia, reclutati e sostenuti economicamente dal Competitive Enterprise Institute, un think tank conservatore che fa lobbying e promuove azioni giudiziarie contro la regolamentazione pubblica, soprattutto in materia ambientale. "King vs. Burwell" è solo l’ultimo di una serie di assalti legali contro la riforma sanitaria, che negli ultimi cinque anni è diventata il principale obiettivo polemico dello schieramento conservatore, tanto che la Camera dei rappresentanti – a maggioranza repubblicana dal gennaio 2011 – ne ha votato la revoca totale o parziale ben 56 volte.

L’Affordable Care Act, entrato pienamente in vigore il 1o gennaio 2014, prevede l’obbligo (mandate) di dotarsi di un’assicurazione individuale sulle spese mediche oppure di pagare una sanzione. A seguito di un precedente ricorso, nel 2012, la Corte suprema ha confermato la legittimità dell’obbligo, giudicato in linea con il potere di tassazione conferito dalla Costituzione al Congresso federale.

Il mandate è essenziale per spingere all’acquisto della copertura sanitaria anche gli individui sani e più giovani, che normalmente tendono a non assicurarsi. Questo contribuisce a distribuire su una base più ampia il costo dell’assicurazione delle persone meno sane. La riforma, infatti, vieta alle assicurazioni private di negare le polizze alle persone con “condizioni pre-esistenti”, cancellarle nel momento in cui il beneficiario si ammala, operare discriminazioni di genere e di età nel calcolo dei premi, porre limiti alla copertura e aumentare il costo dell’assicurazione in modo discrezionale.

Per rendere effettivo l’ampliamento della copertura assicurativa, la riforma prevede un incremento della spesa sanitaria federale, attraverso l’espansione delle assicurazioni pubbliche per gli anziani e gli indigenti, “Medicare” e “Medicaid”, e tramite i sussidi che costituivano l’oggetto del ricorso alla Corte suprema. Hanno diritto al sussidio, inversamente proporzionale alla ricchezza, le persone con un reddito compreso tra il 133% e il 400% della soglia di povertà federale, cioè tra 15 mila e 46 mila dollari circa per un singolo e tra 31 mila e 94 mila dollari circa per una famiglia di 4 persone. Si calcola che gli aiuti federali, erogati come crediti fiscali, arrivino oggi a coprire circa i tre quarti delle spese complessivamente sostenute per la copertura assicurativa, e che oltre l’85% delle persone che hanno acquistato una polizza abbia beneficiato di un sussidio.

Secondo la riforma, inoltre, l’acquisto delle polizze deve avvenire all’interno di nuovi mercati assicurativi regolamentati (denominati exchange). Negli exchange, operativi dal 2014 e accessibili tramite portali web, i beneficiari possono contare su un’offerta più trasparente e competitiva, godere della tutela garantita dalle nuove norme imposte alle compagnie assicurative ed eventualmente chiedere l’assistenza pubblica. La riforma affidava la responsabilità di istituire gli exchange in prima istanza agli Stati, lasciando che il governo centrale intervenisse solo se questi si fossero tirati indietro. Contrariamente alle aspettative, solo 16 Stati hanno creato i loro exchange, spingendo il governo all’istituzione di un mercato federale operativo negli altri 34 Stati attraverso il portale HealthCare.gov.

Il caso "King vs. Burwell" era incentrato su poche parole contenute in una sezione secondaria nelle 2.000 pagine della riforma, dove si afferma che i sussidi per l’acquisto delle polizze sono riconosciuti a coloro che accedono al mercato (exchange) “istituito dallo Stato”. Come si è detto, solo 16 Stati hanno istituito direttamente un exchange, ma l’Internal Revenue Service (Irs) – l’Agenzia delle entrate degli Stati Uniti – ha emanato un regolamento che garantisce i sussidi a tutti gli assicurati, sia che abbiano acquistato la polizza tramite un exchange statale, sia che abbiano dovuto usare il portale federale HealthCare.gov. Sono oltre 6 milioni le persone che hanno seguito questa seconda opzione.

Il passaggio contestato, incoerente con altre parti e con lo spirito della riforma, è probabilmente frutto di un semplice refuso. Ma i ricorrenti chiedevano che la legge fosse applicata letteralmente, e che il regolamento dell’Irs fosse dichiarato illegittimo. Obiettivo era, naturalmente, far saltare l’impianto della riforma, fondata su elementi strettamente interdipendenti.

La Corte suprema, pur riconoscendo che l’Affordable Care Act contiene più di un esempio di stesura poco accorta, ha ritenuto che gli argomenti dei ricorrenti non potessero essere accolti, essenzialmente per due ragioni. In primo luogo, perché il passaggio contestato non deve essere isolato dal resto, ma letto alla luce del contesto e nell’ambito dell’architettura complessiva della legge. Inoltre, la Corte ha analizzato le finalità perseguite dal legislatore: senza il sostegno pubblico non sarebbe raggiunto l’obiettivo della copertura assicurativa generale, e questo comprometterebbe anche gli altri risultati, e cioè la riduzione dei costi e l’assicurazione dei soggetti meno sani. In definitiva, “il Congresso ha approvato l’Affordable Care Act per migliorare i mercati delle assicurazioni sanitarie, non per distruggerli”.