Nel 2011 il regista statunitense Terrence Malick in The Tree of Life metteva in scena la cosmogonia, correlandola alla vita di un microcosmo famigliare nel Texas degli anni Cinquanta. L'anno precedente il regista cileno Patricio Guzmán aveva presentato il documentario Nostalgia de la luz: a partire dai grandi telescopi e radiotelescopi costruiti nel deserto di Atacama, nel nord del Paese, Guzmán tesseva un canto della storia geologica, astronomica, archeologica e politica della sua terra.

Dalla metà degli anni Duemila quel deserto è stato scelto, grazie alla straordinaria trasparenza del suo cielo, per la creazione di un polo di ricerca sulle stelle e le loro origini. Allo stesso tempo, per la sua perfetta aridità, quel deserto è solcato anche dagli archeologi alla ricerca delle tracce dei popoli precolombiani. Ma negli anni Settanta questo deserto è stato anche utilizzato dalla dittatura per impiantarvi campi di prigionia per gli oppositori politici, per lo scavo di fosse comuni e per la dispersione dei corpi dei desaparecidos.

Gli astronomi, gli archeologi e le mujeres de Calama si occupano tutti di tracce del passato: i primi studiano la luce che arriva a noi proveniente da migliaia di anni fa, i secondi cercano i segni lasciati sulle pietre dagli antichi abitanti che guardavano quelle stesse stelle, le terze setacciano il deserto alla ricerca di minimi frammenti di ossa dei loro cari “spariti” dopo l'arresto.

Il riferimento al cosmo sembra, per il regista, per i sopravvissuti e per i loro cari, dare un respiro più ampio al dolore personale: il senso di appartenenza a qualcosa di più grande, che c'era prima e che può continuare dopo. Come il calcio, minerale che viene dalle stelle e si ritrova anche in quei minimi frammenti di corpi dispersi.

Alla Berlinale di quest'anno è stato presentato (e premiato con l'Orso d'argento per la migliore sceneggiatura) il secondo capitolo di quella che per Guzmán dovrà essere una trilogia dedicata alla sua terra: El botón de nácar, il bottone di madreperla, recentemente presentato al pubblico italiano al Biografilm di Bologna, dove ha vinto come miglior film.

Riprendendo il filo lasciato nel deserto di Atacama cinque anni prima, il regista si rivolge ancora alle stelle per ragionare sull'acqua, portata dalle comete e mossa dal cosmo a ogni suo movimento: il Cile ha un estesissimo confine d'acqua, eppure sembra rivolgervi le spalle. Ma nella storia di quella terra sono esistiti popoli del mare, come i Selknam e i Kawésqar: i nomadi della Patagonia, nell'estremo sud.

L'inizio della loro fine è simbolicamente racchiuso in un bottone di madreperla: quello per il quale, secondo la leggenda, si vendette un indigeno, ribattezzato Jimmy Button, al capitano inglese Fitzroy, incaricato di disegnare le mappe di quella terra. Portato in Inghilterra e, successivamente, di nuovo in Patagonia, Jimmy Button fu il primo indigeno a essere sradicato e deprivato della sua cultura, mentre quelle stesse mappe avrebbero permesso l'arrivo dei coloni, che uccisero o civilizzarono forzatamente i fuegini tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo.

Molti morirono nella missione dell'isola Dawson, a causa delle malattie portate dai bianchi. Meno di un secolo dopo, in seguito al golpe, proprio in questa stessa isola venne creato un campo di concentramento per i membri del governo di Allende.

Il secondo bottone di questa storia cilena è stato trovato in fondo al mare, attaccato a una rotaia di ferro, unica traccia dell'abito e del corpo di una vittima della dittatura, gettata in mare. Si stima che questo sia accaduto per 1.500 persone, i cui corpi sono stati legati a elementi pesanti per garantirne la scomparsa. Quel bottone diventa così una prova di un crimine che ancora oggi, a venticinque anni dalla fine della dittatura cilena, deve essere dibattuto nelle aule dei tribunali, come sta accadendo in questi mesi a Roma per il processo "Condor", che riunisce vari procedimenti per i reati (torture e omicidi) delle dittature sudamericane (supportate dalla politica estera statunitense) contro vittime di origine italiana.

“Tuo padre giace a più di cinque tese;/ Ormai coralli sono le sue ossa;/ Sono perle i suoi occhi di una volta:/ Di ogni sua parte soggetta a morire/ Il mare ha fatto cose ricche e strane”, così risuonava il Canto di Ariel ne La Tempesta di Shakespeare: con la madreperla che torna al mare sembra chiudersi un ciclo vitale, se non fosse per quel connubio innaturale con il ferro della traversina che irrompe nella storia naturale alterando la relazione tra cosmo e uomo.