Si sa che tornando da scuola gli adolescenti allungano la strada, almeno così era abituale per noi. Una routine, quel giorno di fine maggio, colta di sorpresa da una frenesia che avevamo imparato a intuire. Per quelli cresciuti a Milano fra gli anni Settanta e Ottanta era quasi una necessità umana rendere normale una città scossa dal terrorismo, dalla sua logica perversa di colpire il meglio di quello che il paese aveva per incatenarlo alla perpetua ripetizione della propria viziosità.Le Brigate Rosse furono sconfitte sul piano militare; ma sono state anche funzionali al creare un sistema di stasi da cui ancora oggi facciamo fatica a uscire.

Qualcuno comunque celebra così le miserevoli briciole di una vittoria che perpetua i lati oscuri del Paese come strumento del suo governo. Le forme di un potere arrogante, una politica incapace di darsi ethos e dignità, la noncuranza sociale con cui si continuano a creare forme di esclusione e marginalità, un giornalismo succube degli intrecci di interessi che ammorbano la vita italiana, hanno cambiato molte etichette, ma la forza della bestia si è rigenerata in ogni sua trasformazione.

Un Paese, il nostro, incapace di qualsiasi riforma che non sia altro da una nuova colonizzazione, vivendo di consunzioni che generano dèi minori del potere che fu. Un Paese che sembra costretto a guardare al proprio altro, recondito in qualche margine della vita civile, per scoprire risorse di una possibile custodia di quella che chiamiamo democrazia. Un Paese segnato da sentieri interrotti a livello della cultura civile delle istituzioni e di riforma dell’istituto politico, che rimangono fragili sentinelle che annunciano quello che potremmo essere – non come di incanto, ma volendolo mettendo in gioco il peso di una vita; perché a meno di questo rimarremo sempre spettatori scontenti su una scacchiera le cui pedine sono mosse da altri.

Poco si riflette sul dovere che abbiamo verso quei percorsi di vita. Dopo Benedetta, anche Luca Tobagi, con un pezzo sul «Corriere della Sera», si è espresso pubblicamente in quello che fu il luogo e la forma che caratterizzarono la vita del padre. Il silenzio delle generazioni andava rispettato, nelle sue ragioni e nei suoi modi. Ora il patrimonio di una vita ci è riconsegnato dalla custodia dei suoi affetti più cari. Con il suo articolo, insieme al libro della sorella, egli rimette in circolo, nello spazio di quel che rimane dell’opinione pubblica italiana, la figura di Walter Tobagi quale chiave a cui rifarsi per una differente qualità civile nella vita del paese. Di generazione in generazione, come se adesso fosse un tempo opportuno. I mondi che furono di Walter Tobagi, dal giornalismo alla politica, dal sindacato alla fede, si trovano oggi davanti a un dovere che non può esaurirsi né in una semplice retorica della commemorazione, né in una ben più impegnativa custodia della memoria. Vita genera vita, anche quando, per coerenza a sé stessi e passione civile, mani violente credono di poter fermarne il corso. Ma è dall’incrocio di vite disponibili anche a questo che si può generare il nuovo.

Il rimosso che ci ha accompagnato per trentacinque anni si scioglie presentandosi a noi come il dovere di una vita. Vi è una misura di giudizio che non dovremmo dimenticare, sulla quale sarebbe opportuno che i luoghi frequentati da Walter Tobagi ritornassero per rendere ragione davanti a essa. Ci sono troppe vischiose collateralità all’impasse delle strutture del Paese, coltivate astutamente per un quarantennio, per pensare che una riforma reale dell’Italia, civile e politica, possa generarsi come d’incanto. La patina pseudo riformista, di innovazione e modernizzazione, con cui si ammanta l’agone politico in ogni suo dove, mascherando una strutturale incapacità di coltivare l’erba buona che ancora cresce, è l’opposto delle pratiche di riforma che Tobagi cercò di far circolare nello spazio pubblico italiano e nel cuore della macchina del potere fra gli anni Settanta e Ottanta.

Tobagi, però, non fu né l’epigono di una stigmatizzazione dei molti limiti italiani né un moralista, ma lavorò per dissodare il terreno buono della vita italiana – gesto inaugurale che permette di non rimanere inchiodati allo stato delle cose e alla loro inerzia. In questo senso, va visto soprattutto come una forza inespressa che chiede di essere doverosamente raccolta e accompagnata negli slanci della sua realistica idealità. Non c’è politica senza un suo sfondo oscuro, bieco, pericoloso perché attraente; ma non si cambia un Paese semplicemente rispecchiandosi in quello sfondo in senso inverso. Lavorare là dove l’humus umano combatte la sua giusta battaglia per non lasciarsi soffocare dalla pervasività di quest’ombra è il dovere di una vita, come fu quella di Tobagi, che viene affidata alle mani di una generazione ignara della sua vicenda. Stando dentro l’ordine della cose, non per appiattirsi su di esse e perdere quel residuo di idealità che abbiamo lasciato ai nostri giovani, ma per darle quella concretezza e realismo necessari affinché possa esercitarsi come seme fecondo di generazione del nuovo, di un poter essere altro dall’inerzia da cui ci stiamo lasciando trascinare da troppe generazioni. Cosa che solo la passione di una vita può.