Grandi polemiche in questi mesi per i restauri condotti sul Colosseo, sul Ciborio di Arnolfo nella Basilica di Santa Cecilia, a Roma, e sulla Basilica inferiore di Assisi. Perché? La risposta è semplice. Sta venendo al pettine il nodo dell’immenso ritardo culturale del settore e la conseguente immensa confusione e inefficienza di attori e regole. Ritardo culturale, confusione e inefficienza che trovano origine e sintesi nel continuare ancora oggi le politiche ministeriali a far coincidere la tutela con il restauroe il restauro con il restauro critico-estetico, come ancora si fosse al Convegno dei soprintendenti del 1938 (77 anni fa) quando Bottai, Longhi, Argan e Brandi così impostarono il problema. Senza alcun collegamento con la questione ambientale. Il collegamento invece fatto nel 1948 (67 anni fa) dall’art. 9 della Costituzione, ma solo in via di principio; né da allora mai nessuno, Mibac e università in primis, riempiendo quell’articolo di contenuti formativi, giuridici, scientifici e organizzativi, così da averne annullato ogni concreto effetto.

Tralasciamo in questa sede, almeno per il momento, Colosseo e Basilica di Santa Cecilia, servirebbe ben altro spazio, e limitiamoci alla pretesa manutenzione in corso sugli affreschi della Basilica inferiore di Assisi. Quella denunciata con forza da Tomaso Montanari, sia per lo schiarimento generale nel chiaroscuro dei dipinti toccati da quella “manutenzione”, sia per la completa irritualità del procedimento. L’estromissione dai lavori dell’Istituto centrale per il restauro (Icr), che da sempre ha seguito i problemi conservativi degli affreschi della Basilica, garantendo che la manutenzione fosse vera, perché eseguita a secco, con un pennello di martora, dopodiché provvedendo a fissare l’intonaco solo nei punti in cui minacci davvero di crollare, né mai toccando – mai toccando, ripeto! – la pellicola pittorica con acqua (distillata o meno), tantomeno conducendone una nuova reintegrazione, insomma operando con infinita leggerezza come oggi si fa, ad esempio, nella manutenzione dei restauri nella Cappella Sistina (in Vaticano, all’estero…). La leggerezza che non pare esser stata rilevata dalle due funzionarie della Soprintendenza dell’Umbria andate un paio di mesi fa in Basilica a vedere come si stava effettuando la “manutenzione” sugli affreschi di Pietro Lorenzetti.

Azioni ministeriali a seguito dell’allarmata relazione stesa dalle due funzionarie su quanto da loro osservato e della forte presa di posizione di Montanari su “la Repubblica”? Nulla. Un silenzio assoluto rotto solo dalle pressanti richieste dei frati che, come niente fosse avvenuto, si sono messi a chiedere fondi per il restauro (restauro) degli affreschi eseguiti da Andrea da Bologna della chiesa inferiore, affreschi che, al solito, non hanno bisogno d’un restauro, bensì (forse) solo d’una manutenzione; da eseguirsi a secco, con i soliti pennelli di martora.

Conclusioni? Che in 77 anni, dal 1938 di Bottai, Brandi e altri a oggi, Mibac e università non sono ancora riusciti a creare una cultura diffusa tra i vari attori della tutela che distingua in via definitiva tra restauro e manutenzione. Nemmeno realizzando che i restauri sono sempre dannosi, ancor più quando s’intervenga su opere rese fragili da precedenti restauri. Dannosa perfino una nuova reintegrazione quando cambi, come spesso accade, la percezione ottica, quindi critica, dell’opera su cui s’interviene.

Ci sia allora consentita qualche domanda al ministro Franceschini.

– Quali potranno essere le prospettive per la conservazione materiale del patrimonio storico e artistico del Paese quando, come oggi accade, a coordinare le scuole universitarie di restauro è un architetto bocciato al concorso da Ordinario del 2014, scrivendo in sede pubblica la Commissione giudicante che il detto architetto “deve ancora affrontare le tematiche fondanti del settore per potere aspirare a raggiungere la piena maturità scientifica”?

– Quali potranno essere le prospettive per la conservazione materiale del patrimonio storico e artistico del Paese quando ad avere incarichi di decisiva importanza dentro il Mibac è la persona che, da direttrice dell’Icr, aveva promosso il restauro della Vela di Cimabue crollata a terra per il terremoto del 1997? Restauro condotto rimettendo in sito una minima parte delle molte centinaia di migliaia di frammenti in cui la Vela è stata letteralmente macinata dal terremoto con un risultato finale (si vada a vedere) insensato dal punto di vista storico, inservibile sul piano critico, inutile in termini iconografici, infine ridicolo, quando non offensivo, se confrontato con l’immensa arte di Cimabue. E tuttavia restauro allora difeso con forza (e anche un poco di arroganza burocratica) dalla nostra indicando come “pretestuosa la distinzione fra le parole originale e autografo” di chi voleva porre in opera una copia; affermazione così con me commentata da Claudio Ciociola, tra gli ultimi allievi di Gianfranco Contini, professore alla Normale e presidente della Società dei filologi della letteratura italiana: “Avrei buttato fuori dall’esame qualsiasi studente di primo anno che avesse fatto un’affermazione del genere”.

– Quali potranno essere le prospettive per la conservazione materiale del patrimonio storico e artistico del Paese quando il Mibac continua a non rendersi conto che il suo compito d’istituto non può continuare a essere il dilettantesco trastullo del giudizio critico-estetico sui restauri, bensì di finalmente definire con la massima precisione, quindi sulla base di specifiche e ben fondate competenze professionali, il corpo di azione tecnica – formativo, organizzativo, tecnico-scientifico e giuridico – da dare al vero nodo della questione della tutela in Italia: la conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto tra quell’insieme e l’ambiente in cui da millenni è indissolubilmente collegato?

– E, inoltre, quali potranno essere le prospettive per la conservazione materiale del patrimonio storico e artistico del Paese quando il Mibac continua a non rendersi conto della sempre più evidente fragilità di città storiche, monumenti e opere d’arte a fronte del montare inarrestabile di inondazioni e frane, terremoti, d’una tanto capillare quanto impunita speculazione edilizia, di radicali variazioni nella distribuzione della popolazione (= spopolamento del territorio), del fortissimo invecchiamento del clero (l’unico che ancora tiene aperte e custodisce le oltre 100.000 chiese storiche italiane), dei molti, troppi, restauri estetici inutili e perciò stesso dannosi, e così via?

– Crede davvero, signor ministro, che una riforma come la sua, che soprattutto consiste nel far ruotare di sede i soprintendenti possa avere un qualsiasi effetto sulla conservazione materiale del patrimonio storico e artistico del Paese?

– Crede cioè che la sua riforma possa avere un qualsiasi senso nonostante non sia stata incardinata a una nuova politica di tutela definita con la massima precisione, prima, nei suoi scopi, poi, nei suoi aspetti formativi, organizzativi, giuridici e tecnico-scientifici, una nuova politica di tutela inoltre sostenuta da una nuova legge di tutela che finalmente non sia l’ennesima rifrittura della l. 1089/39 e, prima ancora, dell’Editto del Cardinal Pacca del 1820?

– Non pensa che, per questa ragione, della sua riforma si possa dire (sostituendo il termine “ministero” con “riforma”) lo stesso di quanto profeticamente aveva affermato Sabino Cassese nel 1975 per il destino del Mibac? Cioè: “Il ministero [= La riforma] è una scatola vuota: il provvedimento della sua costituzione non indica una politica nuova, non contiene una riforma della legislazione di tutela; consiste in un mero trasferimento di uffici da una struttura [la vecchia Direzione generale antichità e belle arti] all’altra e non si vede perché uffici che non funzionano dovrebbero funzionare riuniti in un unico ministero”.

– Se le cose stanno così, come io credo, non pensa che la sua riforma abbia in partenza un ritardo culturale di quarant’anni, gli stessi che separano il 1975 dall’oggi? Quarant’anni che, nel tempo di internet, equivalgono a quattro secoli?

– Infine, per così dire, una domanda “fuori busta”. Lei, signor ministro, parla spesso, e giustamente, di valorizzazione, citando in particolare il caso del Colosseo. Non crede però che il Colosseo sia un monumento valorizzato in sé? E che, in Italia, il problema sia invece quello di valorizzare, faccio due esempi tra le molte migliaia possibili, il museo di Montelupone Marche piuttosto che il centro storico di Cleto Cosentino? Cioè di valorizzare quell’infinita e meravigliosa e preziosissima diffusione territoriale che rende il nostro patrimonio storico e artistico unico al mondo?