Nel marzo 2015, diversi genitori e associazioni si sono mobilitati contro le insegnanti di alcune scuole dell’infanzia di Trieste e contro i promotori del progetto "Pari o dispari? Il gioco del rispetto", un progetto nato con l’obiettivo di favorire il superamento degli stereotipi di genere sin dalla scuola dell’infanzia per la promozione del rispetto e la prevenzione della violenza. Le accuse mosse spaziavano dal forzare bambine e bambini a travestirsi scambiandosi i vestiti, all’istigazione a toccarsi le parti intime;dalla manipolazione delle menti da parte delle insegnanti e formatrici, all’istigazione al transessualismo. Nonostante l’animato dibattito suscitato, il caso si è sgonfiato nel giro di pochi giorni: le famiglie degli istituti coinvolti hanno avuto la possibilità di chiarire in un incontro la pretestuosità e l’infondatezza delle accuse rivolte ai promotori e alle ideatrici dell’iniziativa.

Questo episodio è solo l’ultimo di una serie di opposizioni e manifestazioni contro quella che i suoi stessi detrattori definiscono come “ideologia del gender” o “teoria del gender”. Sulla scia di quanto avvenuto anche in Francia, negli ultimi due anni si sono, infatti, moltiplicati gli attacchi da parte di alcuni rappresentanti del mondo cattolico – ma non solo – a educatori, insegnanti e formatori che, nei diversi ordini e gradi scolastici, hanno portato avanti progetti di educazione alle differenze di genere, all’affettività e alla sessualità.

La presentazione, nel 2013, della “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere” promossa dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni (Unar), così come la proposta di legge del 2013 contro l’omo-transfobia – la cosiddetta “proposta di legge Scalfarotto”– e il disegno di legge sull’educazione di genere nelle scuole presentato in Senato nel novembre del 2014 hanno provocato una dura reazione da parte di diverse associazioni dei genitori – fra cui anche il collettivo non confessionale “La manif pour tous Italia”, nato sulla scorta dell’omonimo francese – e associazioni di ispirazione religiosa. L’opposizione e il dissenso espressi da parte dell’associazionismo cattolico sono stati supportati dalla Conferenza episcopale italiana e, in alcuni casi, anche da esponenti del mondo politico. La mobilitazione si è articolata in contesti differenti – istituzionali, culturali, massmediatici – e secondo strategie diversificate: se il Forum delle associazioni familiari dell’Umbria ha stilato il “Gender a scuola. Un decalogo per difendersi”, associazioni quali Agesc, ProVita onlus, Age, Movimento per la vita e Giuristi per la vita hanno lanciato la “Petizione sull’educazione affettiva e sessuale nelle scuole”. Sono stati organizzati seminari pubblici e conferenze sul tema della famiglia, ma sono anche state intraprese diverse azioni legali: nell’aprile 2014, ad esempio, ProVita onlus e Giuristi per la vita hanno denunciato una scuola romana per la lettura in una classe di ginnasio del romanzo di Melania Mazzucco Sei come sei, giudicato un testo pornografico inadatto agli studenti.

Le istanze che soggiacciono a queste variegate forme di azione e mobilitazione sono molteplici e non prive di ambivalenze. Da un lato viene riconosciuta come “lodevole” la lotta contro  le discriminazioni; dall’altro il riconoscimento dei diritti delle persone Lgbt viene tacciato di “eterofobia” e viene presentato come un tentativo di sovvertire l’ordine “naturale” delle cose: una sola famiglia è possibile, quella con un padre e una madre; le famiglie omogenitoriali non possono essere considerate – di certo non sul piano dei diritti – alla stregua di quelle “tradizionali” anche in ragione del disconoscimento di qualsiasi orientamento sessuale che violi l’eteronormatività.

Le iniziative di educazione al genere che, come quella di Trieste, cercano di promuovere modelli e ruoli di genere meno viziati da stereotipi sessisti vengono qualificate, del resto, come operazioni di “indottrinamento” tese alla neutralizzazione delle differenze e all’indeterminatezza/confusione dei ruoli e delle identità.  I sostenitori delle proteste e delle mobilitazione non mettono esplicitamente in discussione l’ideale di una parità fra uomini e donne: quasi portando alle estreme conseguenze il pensiero della differenza, viene anzi sostenuta una parità di diritti che – nell’ottica della complementarietà – sia rispettosa delle differenze. Eppure, la rivendicazione del primato del dato biologico sulla costruzione dell’identità rispetto ai processi di socializzazione viene utilizzata per naturalizzare la differenza e per legittimare, indirettamente, le disuguaglianze che tuttora permangono non solo nella sfera produttiva, ma – giocoforza – anche in quella riproduttiva, dove la donna viene definita come “naturalmente” devota e deputata alla cura.

Il filo rosso che connette queste istanze nelle retoriche dei movimenti e associazioni è, appunto, quello della lotta contro la “ideologia” o “teoria del gender”. Se il primo termine – in letteratura – indica un concetto molto diverso da quello proposto dai suoi detrattori, il secondo è addirittura inesistente. Come evidenziato dalla Società italiana delle storiche, dall’Associazione italiana psicologi e da alcune accademiche, non esiste una teoria unificata sul genere; esistono, invece, gli studi sul genere che, dalla metà degli anni Settanta, hanno prodotto teorie diverse e, in alcuni  casi, fra loro contrapposte. Sebbene recentemente il collettivo di associazioni “La manif pour tous” – in Francia, così come in Italia – abbia riconosciuto l’esistenza di teorie variegate, nell’altrettanto variegato corpus dei gender studies, l’inesistente “teoria del gender” è diventata lo spauracchio attorno al quale è stata costruita la “chiamata alle armi” per risvegliare le coscienze dei cittadini obnubilati da anni di propaganda/ideologia gender: il motto "Genitori, sveglia!", nelle sue molteplici declinazioni, si può ritrovare in diversi siti, volantini e locandine di eventi organizzati dall’associazionismo “contro il gender a scuola”. Il fatto stesso che venga più frequentemente utilizzato il termine inglese gender rispetto alla sua – ormai ventennale – traduzione italiana “genere” sembra indicare il tentativo di rendere estraneo questo concetto dalla tradizione di studi italiana.

La contesa si gioca essenzialmente nell’arena educativa. Rivendicando il ruolo primario – quando non esclusivo – della famiglia nell’educazione di bambine/i e ragazze/i, viene messa in discussione la possibilità che nelle scuole si affrontino i temi dell’educazione all’affettività e alla sessualità da una prospettiva non normativa (e attenta alla dimensione del piacere). Non solo: come gli eventi degli ultimi anni hanno dimostrato, viene contestato il diritto/dovere stesso della scuola a educare alle differenze e al loro rispetto. Tutto ciò viene fatto in nome di un rifiuto e di un disconoscimento del concetto di genere: la costruzione sociale e culturale dei generi e, più in generale, il portato critico dei gender studies vengono banalizzati e liquidati come operazioni di mistificazione della realtà data dall’esistenza “naturale” dei due sessi. Da anni nelle scuole vengono portati avanti progetti di diversa natura. Nessuna organizzazione si è però mobilitata contro i progetti di coltivazione di piccoli orti tacciandoli di “propaganda vegan”, né i progetti di educazione alla mondialità sono mai stati accusati di costituire forme di indottrinamento alla “ideologia no global”.

Le politiche di educazione internazionali, così come le esperienze educative per il superamento degli stereotipi di genere condotte quotidianamente e “dal basso”, stanno favorendo un cambiamento culturale che sta interessando l’Italia da almeno due decenni. Tale processo, lento e fatto anche di battute d’arresto e involuzioni, ha suscitato una controreazione che, negli ultimi due anni, sembra essersi inasprita. È evidente come l’attuale mobilitazione e movimento di critica nei confronti della cosiddetta “ideologia/teoria del gender” debbano essere letti in termini di backlash rispetto alle parziali conquiste non solo dei movimenti per i diritti civili delle persone Lgbt, ma anche del femminismo.