La tendenza a uno sfruttamento esasperato e le condizioni di lavoro precarie hanno caratterizzato
l’industria tessile fin dagli inizi della Rivoluzione industriale. Il 25 marzo 1911, il rogo alla fabbrica
Triangle Shirtwaist a New York provocò la morte di 123 lavoratrici e 23 lavoratori tessili. Le vittime erano in maggioranza giovani donne immigrate di origini italiane ed ebraiche, rimaste chiuse all’interno della fabbrica durante l’incendio, dal momento che i padroni avevano bloccato le uscite durante il turno di lavoro. A seguito dell’incendio, i sindacati riuscirono a ottenere una serie di tutele per i lavoratori dell’industria tessile negli Stati Uniti.

Il tema dello sfruttamento e della violazione dei diritti umani nell’industria dell’abbigliamento è riemerso nella cronaca internazionale più recente in seguito alla catastrofe avvenuta il 24 aprile 2013 a Savar, periferia di Dhaka, Bangladesh. Il crollo dell’edificio chiamato Rana Plaza ha provocato 1.138 morti e 600 feriti gravi tra i circa 5.000 dipendenti di micro-compagnie tessili che producevano indumenti per grandi marchi di abbigliamento come Primark e Benetton. L’evento ha ottenuto il triste primato di incidente industriale con il maggior numero di vittime. Nonostante l’edificio mostrasse delle crepe già il giorno prima del crollo, e nonostante ci fossero state proteste, gli operai e le operaie erano stati costretti ad andare ugualmente al lavoro per poter ricevere il pagamento degli straordinari. La produzione tessile globale, infatti, non può permettersi rallentamenti, basata com’è sulla velocità degli ordini e delle consegne per far fronte alle nuove tendenze della moda. Il Bangladesh è il secondo esportatore di indumenti tessili dopo la Cina, e l’industria impiega circa 4 milioni di dipendenti, in maggioranza giovani donne (L. Siegle e J. Burke, We Are What We Wear: Unravelling Fast Fashion and the Collapse of Rana Plaza, Guardian Shorts, 2014). La catastrofe di Rana Plaza ha mostrato le crudeli contraddizioni di un’industria globale che genera profitti incalcolabili, ma che al tempo stesso crea insostenibili diseguaglianze.

 

Riproduciamo qui l'incipit dell'articolo di Chiara Bonfiglioli, Il lato oscuro del Made in Europe. Industria della moda e sfruttamento, pubblicato sul “Mulino” n. 6/14, pp. 984-990.