Abitando a Siena, capita prima o poi di dover accompagnare qualcuno, italiano o straniero che sia, a vedere il Palio. E qui cominciano i guai. Spiegare infatti come funziona questo celebre agone a chi vi si avvicini con in mente una normale corsa di cavalli, o peggio ancora una competizione sportiva modello Olimpiadi, è molto difficile. Prima di tutto, infatti, occorre mettere in chiaro che il Palio è sì una gara, ma decisa anche dal sorteggio. A sorte vengono infatti estratti i cavalli assegnati alle singole contrade, la sorte determina il loro reciproco piazzamento al canape di partenza, così come ancora la sorte decide quale sarà il cavallo, detto «di rincorsa», che caracolla dietro tutti gli altri, già pronti a partire, e il cui fantino ha il compito, o meglio il potere, di dare inizio alla gara, scattando in avanti quando lo ritiene più opportuno. D’altra parte, però, occorre anche spiegare che, a differenza di qualsiasi altra competizione, al Palio è considerato assolutamente lecito il patteggiare fra i singoli concorrenti. Non solo perché lungo tutto l’anno i singoli capitani di contrade sono impegnati a «negoziare» fra loro vittorie o sconfitte, ma perché questa pratica si protrae fino a un attimo prima della partenza, quando i fantini, con i cavalli già schierati sul filo della partenza, continuano a parlottare fra loro accordandosi con l’uno o con l’altro per favorirsi o sfavorirsi reciprocamente durante la corsa. Partiti i cavalli, poi, diventa indispensabile precisare che le reciproche frustate fra i fantini sono ammesse. E che dire delle reazioni del pubblico senese, che gode non solo, o non tanto, quando la propria contrada vince, ma quando la nemica perde (meglio ancora se arriva seconda, in quanto «ripurgata»)? Come si vede, illustrare tutto ciò in una rapida sintesi di antropologia paliesca costituisce un compito non facile.

Ecco, la stessa difficoltà l’ho provata ogni volta che mi sono trovato a spiegare a qualcuno, estraneo al mondo dell’università, come funziona il sistema di reclutamento che vige all’interno della nostra istituzione. Si pensi solo al meccanismo dei famigerati «concorsi»: questo ritualizzato
meccanismo cerimoniale, così squisitamente accademico, in cui si intersecano consorteria e merito, regole e trasgressione, centralità nazionale e redistribuzione locale, malignità della sorte e prevaricazione del potere. Come spiegare tutto ciò a qualcuno che l’università la conosce al massimo per esservisi laureato (ed è ingenuamente convinto che i concorsi siano semplicemente «truccati») o peggio ancora a un professore del Missouri?