La scuola italiana è disorientata. Da anni vive sempre gli stessi problemi: la scarsità di risorse, il precariato, il corpo docenti invecchiato e demotivato, i risultati insoddisfacenti degli studenti nelle rilevazioni degli apprendimenti, il conflitto con le famiglie ecc. Da anni le iniziative di riforma intraprese da governi di qualsiasi tendenza sono state accolte dagli insegnanti con ostilità o passività, diversamente mescolate. Soprattutto dopo i tagli subiti dal 2008, il disincanto ormai è la nota dominante. Nel lavoro scolastico quotidiano prevalgono la stanchezza e la sfiducia.

La radice di questa situazione è l’assenza di una politica scolastica. Se Berlinguer e Moratti, da prospettive opposte, avevano messo in campo un progetto generale di riforma della scuola, che aveva una visione d’insieme, per quanto contestata, dopo è iniziato un susseguirsi di iniziative prive di prospettiva. Fioroni ha ammesso esplicitamente questo profilo basso. Gelmini ha realizzato un riordino di tutti gli ordini di scuola, che ha comportato cambiamneti radicali, ma che non era guidato da un reale progetto di scuola: in primo luogo perché, rispondendo essenzialmente a esigenze di bilancio, ha tolto alla scuola troppe risorse; e poi perché non ha toccato nessuno dei problemi di fondo. Dopo, è iniziato un periodo di aperto disorientamento. A Profumo va riconosciuta la determinazione con cui ha messo in moto la formazione e il reclutamento dei docenti, e una certa spinta all’innovazione tecnologica. Ma eravamo nella crisi finanziaria, e quindi non si poteva mettere mano a grandi progetti. Con Carrozza si è visto qualche cambiamento sul piano dell’attenzione alla scuola: dopo anni di tagli, si è ripreso a investire qualcosa; il decreto scuola, convertito in legge a fine 2013, ha preso alcuni provvedimenti importanti su edilizia scolastica, formazione, dispersione scolastica ecc. Tuttavia, la debolezza del governo Letta ha impedito ancora una volta di mettere mano a un progetto generale. Con la nascita del governo Renzi, le cose a un certo punto hanno assunto una prospettiva diversa.

All’inizio, il ministro Giannini non è stato capace di dare l’idea di una direzione di marcia. L’unico terreno su cui si è intervenuto con decisione è stato quello dell’edilizia scolastica. Dopo le elezioni europee del 25 maggio, le cose sembrano essere cambiate. Renzi ha cercato di dare al governo una prospettiva di lungo respiro e questo ha influenzato anche la politica scolastica. È emerso il progetto di un “Piano per la scuola”, i cui contenuti sono stati anticipati in parte dal sottosegretario Reggi a inizio luglio. Tuttavia, proprio queste anticipazioni mostrano che il problema continua a essere quello della mancanza di una prospettiva lungimirante e coerente. Le proposte di allungamento dell’orario di lavoro dei docenti, dell’introduzione di forme di premialità, dell’apertura degli istituti tutto il giorno ecc. sono state presentate in modo molto maldestro, e hanno provocato le prevedibili opposizioni nel mondo della scuola. In tutto questo è emerso un certo dilettantismo. E quindi come al solito l’assenza di una visione di insieme.

Il problema è che si vive costantemente nell’emergenza: per l’assenza di risorse, e per l’urgenza di affrontare questioni irrisolte. Bisognerebbe cambiare prospettiva, e pensare che non serve fabbricare in poco tempo un ennesimo tentativo abortito di riforma, ma piuttosto elaborare un progetto nuovo di scuola, coerente, intorno al quale creare consenso con una discussione pubblica non strozzata dal bisogno di portare in fretta a casa dei risultati.

 

I docenti sono la cosa più importante della scuola. Qualsiasi riforma che non assicuri insegnanti competenti e motivati è destinata a fallire. Sono i docenti che entrano nelle classi e prendono in carico la formazione degli allievi, quindi l’intervento più importante deve essere rivolto alla qualità della loro attività. Su questo terreno, bisogna compiere una vera e propria rivoluzione culturale: il lavoro degli insegnanti, di ogni ordine e grado di scuola, deve diventare un lavoro altamente qualificato, esigente, cui non è facile accedere e che richiede una seria motivazione. Purtroppo, la scuola italiana sta ancora pagando il fatto che per alcuni decenni è stato facile entrarvi, e che il mestiere di insegnante è stato percepito come “facile”, poco impegnativo.

C’è bisogno quindi di una formazione e di un reclutamento selettivi. Per quel che riguarda la formazione in ingresso, bisogna distinguere tra la scuola primaria e la scuola secondaria. Per la prima, l’attuale laurea della formazione primaria, a numero programmato, dà buoni risultati. Per la scuola secondaria, invece, la soluzione più adatta è probabilmente un percorso strutturato secondo una laurea triennale disciplinare e una laurea magistrale orientata alla didattica della disciplina. La laurea magistrale deve essere a numero programmato, secondo il fabbisogno dei posti disponibili; è importante però che questo vincolo sia rispettato rigorosamente, perché il mancato rispetto dei numeri programmati ha in passato aggravato il problema delle graduatorie dei precari. Il tirocinio può fare parte dell’ultimo anno della laurea magistrale.

Sul terreno del reclutamento, invece, la riforma lungimirante da realizzare è semplice ma rivoluzionaria: bandire concorsi regolari, ogni due anni, sui posti disponibili. Sappiamo che oggi il problema del reclutamento degli insegnanti è un rompicapo: è necessario svecchiare il corpo docenti facendo entrare i più giovani; allo stesso tempo, si devono riassorbire i precari “storici”, che da anni lavorano nella scuola senza avere un posto fisso. Se si rispondesse solo alla prima esigenza, si penalizzerebbero pesantemente i precari; viceversa, se si cercasse in primo luogo di esaurire le graduatorie, si bloccherebbe l’accesso ai più giovani per molti anni. L’unica soluzione è fare concorsi regolari e frequenti: secondo la normativa vigente, infatti, per ogni docente che entra per concorso ne deve entrare uno dalle graduatorie. Questo permetterebbe di svuotare le graduatorie senza escludere dalla scuola i più giovani.

Inoltre, su questo punto si potrebbe, con un po’ di coraggio, provare un esperimento. Per facilitare l’ingresso nella scuola di nuove energie, i docenti più anziani potrebbero avere un orario cattedra più leggero, e nelle ore restanti lavorare per svolgere attività organizzative e di coordinamento, oltre che di tutoraggio dei nuovi colleghi. Le ore di insegnamento così liberate permetterebbero di assumere i più giovani, però il tutto potrebbe non essere oneroso per lo stato, perché le funzioni svolte dai docenti “senior” non richiederebbero un compenso aggiuntivo, come avverrebbe se si aggiungessero a un normale orario di insegnamento.

Infine, un punto su cui c’è un accordo sempre maggiore tra chi si occupa di scuola: va reintrodotta finalmente la formazione obbligatoria in servizio.

 

Ovviamente, per avere docenti competenti e motivati non basta la selezione in ingresso. Deve cambiare il modo stesso di praticare questo mestiere. La prima cosa su cui riflettere è la quantità e la qualità del lavoro. È evidente a tutti che l’orario cattedra non può essere modificato più di tanto: non è possibile fare più di una ventina circa di ore settimanali di insegnamento, se le si fanno bene (questo riferito alla scuola secondaria; nella primaria c’è già un orario cattedra superiore, che andrebbe riconosciuto maggiormente). Quindi si potrebbe anche accettare di mantenere l’orario di insegnamento come è attualmente.

Bisogna però chiedersi se i docenti devono avere anche un orario di lavoro, con presenza a scuola, più lungo di quello di insegnamento. Indubbiamente ci sono una serie di funzioni, oltre a quelle collegiali, che richiedono l’impegno e la presenza a scuola: organizzazione della didattica e dell’istituto scolastico, recupero, ricevimento dei genitori, attività specifiche contro la dispersione ecc. Ora, si potrebbero pensare due soluzioni: da un lato, tutti i docenti potrebbero garantire alcune di queste attività aggiungendo all’orario di insegnamento poche ore settimanali di presenza a scuola; dall’altro, le attività restanti potrebbero essere svolte solo da alcuni docenti, con un orario flessibile, attribuibile a chi ha le competenze e la voglia di svolgerle. In questo secondo caso, la retribuzione potrebbe essere differenziata, sulla base delle ore passate a scuola per svolgere funzioni specifiche; oppure, in modo più elastico, sulla base delle responsabilità assunte per svolgere queste attività.

In tal modo, si riconoscerebbe il lavoro di chi contribuisce a far funzionare la scuola, differenziando la retribuzione tra chi si limita all’orario “normale” e chi si fa carico di altre attività. Qui però si annida un problema grave. È giusto riconoscere e promuovere un simile impegno, tuttavia bisogna evitare di limitarsi solo a questo. Il cuore della scuola è la didattica. Se gli aumenti stipendiali vanno solo a chi si occupa di attività esterne a quelle svolte in aula, c’è il rischio che docenti anche bravi si disimpegnino sul fronte dell’insegnamento, per ottenere riconoscimenti all’esterno. Invece è necessario fare in modo che chi investe il suo tempo e le sue energie solo nella didattica abbia il riconoscimento che gli spetta.

Questo terreno è molto delicato. In primo luogo, pone il problema della valutazione del lavoro dei docenti in classe. Le altre attività sono facilmente valutabili sulla base dei risultati conseguiti e del tempo passato a scuola per svolgerle. Il lavoro in aula invece deve essere valutato entrando nell’aula stessa. Bisogna rompere il tabù che chiude l’aula a controlli esterni di qualsiasi tipo. Attualmente i docenti, quando sono soli con gli allievi, possono fare più o meno quello che vogliono. Gli unici a lamentarsi saranno gli allievi stessi e i genitori, in contenziosi interminabili perché non c’è mai un giudice terzo che abbia visto quello che accade realmente. L’unico modo per valutare la didattica quotidiana è che qualcuno entri, ogni tanto, nell’aula, e osservi, si faccia un’idea della relazione instaurata tra docente e allievi, delle competenze disciplinari del primo, della sua capacità di trasmetterle; giudichi le attività che svolgono gli allievi, la loro partecipazione, i prodotti che elaborano, le competenze che hanno sviluppato ecc. Insomma, una valutazione eminentemente qualitativa, svolta da personale specializzato, in visite periodiche e scrupolose.

Il secondo problema è come utilizzare questa valutazione. Per promuovere una didattica migliore, bisogna incentivare, non punire. Quindi sarebbero auspicabili aumenti stipendiali legati non solo all’anzianità di servizio, ma anche alla qualità del lavoro svolto. Si potrebbero prospettare due possibilità. La prima sarebbe quella della progressione di carriera per merito: una parte della retribuzione potrebbe aumentare sulla base dei risultati ottenuti in queste valutazioni. Un’altra possibilità potrebbe essere di pensare a una carriera dei docenti, con dei livelli cui si accede per concorso, in cui il punteggio è determinato anche dalle valutazioni della didattica ottenute nel tempo. Questo punto è complesso, e tecnicamente può essere affrontato in modi diversi. L’importante è accettare il principio secondo il quale deve essere riconosciuto il lavoro di chi investe maggiori energie nella didattica, così come il principio che ci siano valutazioni periodiche da parte di personale esterno. E soprattutto non cadere nell’errore di attribuire maggiore valore, nella retribuzione e nella carriera dei docenti, solo alle attività di tipo organizzativo.

 

La situazione dell’obbligo di istruzione, oggi, è del tutto paradossale. In teoria, l’obbligo è a 16 anni. In realtà, come è noto, esso può essere assolto non solo nelle scuole del sistema pubblico di istruzione e formazione (cioè licei, istituti tecnici e istituti professionali, sia statali che paritari), ma anche nei percorsi di formazione professionale, che competono alle Regioni, e addirittura nell’apprendistato. Di fatto, quindi, la situazione è questa: gli studenti che vengono bocciati nel biennio spesso finiscono come ripiego nella formazione professionale o nell’apprendistato; oppure questi canali vengono scelti direttamente a 14 anni, dopo la scuola media.

Quindi, se si intende l’obbligo di istruzione in senso stretto, come istruzione nella scuola pubblica, allora di fatto esso finisce a 14 anni. Se invece si intende l’obbligo di istruzione e formazione in senso largo, comprendendo anche la formazione professionale, allora in questo caso l’obbligo si assolve realmente a 16 anni; ma bisognerebbe chiedersi se questo è un modello scelto consapevolmente, o se la formazione professionale non fa altro che supplire alle carenze di un sistema scolastico poco inclusivo (cfr. punto successivo). Inoltre, in entrambi i casi non si capisce in che modo l’apprendistato possa essere considerato un modo soddisfacente di assolvere all’obbligo di istruzione. La questione è quindi di principio: si tratta di decidere se l’obbligo può essere assolto solo in un sistema che garantisce la formazione generale (scuole) o se anche in un sistema che garantisce in primo luogo competenze specifiche (formazione professionale). Probabilmente una società democratica e altamente differenziata non può accettare di interpretare l’obbligo nel secondo senso: limitarsi alla formazione professionale nel periodo dell’obbligo significa ridurre l’autonomia della persona e del cittadino, e limitare le sue competenze fondamentali.

Come è noto, l’Italia soffre di un elevato tasso di dispersione scolastica; alla sua origine si trovano soprattutto le bocciature, specie nel biennio delle scuole superiori. La nostra scuola non è inclusiva: boccia le persone che non riescono a inserirsi in un sistema troppo rigido, e le scarica sulla formazione professionale (e sull’apprendistato), quando va bene; altrimenti li condanna a fallimenti successivi che li escludono del tutto da qualsiasi percorso formativo.

Uno dei problemi fondamentali è quindi quello delle bocciature. Di solito, su questo terreno, per contrastare la dispersione si propone di rafforzare le iniziative volte al recupero. Forse, invece, è arrivato il momento di riflettere seriamente su una soluzione più radicale: abolire le bocciature. Queste ultime, ormai, sono solo un costo; per gli allievi, in termini di autostima, crescita personale e tempo; per le famiglie, in termini di tempo e di soldi; e per lo stato, in termini di risorse umane e finanziarie investite. Sono solo un costo, perché nella maggior parte dei casi la bocciatura non porta a un miglioramento del rendimento scolastico, e in molti porta addirittura alla dispersione. Ovviamente, per fare una cosa di questo genere, bisognerebbe ripensare la struttura della didattica. Abolire le bocciature mantenendo il sistema così com’è ora rischia di portare al diploma studenti del tutto privi di competenze. Si potrebbe pensare di abolire le bocciature fino alla fine dell’obbligo di istruzione, cioè fino a 16 anni; questo comporterebbe una decisione per un obbligo “forte”, che non si può assolvere nella formazione professionale. Inoltre, si potrebbe pensare a un percorso “modulare”, all’interno degli indirizzi: se un ragazzo è insufficiente in alcune materie, invece di bocciarlo o rimandarlo, lo si obbliga a ripetere solo in quelle materie, mentre va avanti nelle altre. Oppure si può pensare a soluzioni più flessibili: i ragazzi partecipano ad attività di complessità diversificata dando il contributo che sono in grado di dare e ottenendo una certificazione conseguente. Queste soluzioni comporterebbero tra l’altro l’eliminazione del gruppo classe fisso.

Anche in questo caso, i dettagli tecnici si possono studiare, ma è necessario avere il coraggio di rompere il tabù di una scuola senza bocciature.

 

Periodicamente, poi, viene avanzata la proposta di ridurre di un anno il percorso formativo degli studenti italiani, portando a 18 anni l’età di uscita dalla scuola secondaria di secondo grado. Solo Berlinguer aveva elaborato una riforma organica dei cicli, per realizzare questo obbiettivo. Dopo, la Moratti cercò di anticipare l’ingresso a cinque anni; e quando questa idea fallì, più volte è stato proposto di ridurre di un anno la scuola secondaria di secondo grado. Sono in corso attualmente alcune sperimentazioni e il governo sembra intenzionato a muoversi in questo senso.

La questione dovrebbe essere vista in termini più generali. In primo luogo, bisogna chiedersi perché i ragazzi dovrebbero uscire dalla scuola a 18 e non a 19. Dire che si fa così in tutti i Paesi europei non è un buon argomento, dal momento che non è vero. Né è un buon argomento dire che questo permetterebbe ai ragazzi di immettersi più rapidamente nel mercato del lavoro. Questa prospettiva economicistica è riduttiva. La funzione della scuola non è quella di “formare capitale umano”, ma di formare una persona autonoma, che abbia sviluppato le competenze fondamentali per realizzare i propri progetti di vita. Che poi questo contribuisca anche al benessere economico, è un aspetto conseguente. Bisognerebbe chiedersi però se l’uscita a 18 anni non sia migliore proprio dal punto di vista della persona: forse i ragazzi tra i 18 e i 19 anni sono già abbastanza maturi da sentire con insofferenza la costrizione del sistema scolastico.

Questo, se ci si limita al problema dell’età di uscita dal sistema scolastico. Ma il problema fondamentale è piuttosto la struttura stessa, di tale sistema. Noi abbiamo alcune consapevolezze, in questo momento, che dovremmo mettere al centro di un dibattito riformatore. La prima è che l’anello debole della scuola italiana è la scuola secondaria di primo grado (la scuola media). Qui, per esempio, avviene il crollo dell’interesse al lavoro scolastico da parte degli allievi; qui inizia la divaricazione tra le possibilità di successo dei più e dei meno avvantaggiati; qui il corpo docenti è più anziano e demotivato; qui si presenta ai ragazzi una didattica disciplinare e frontale che non sembra adatta a loro. Ora, questo non vuol dire che la scuola media debba essere abolita, ma certo le sue difficoltà sono un punto di riflessione per una riforma dei cicli. Inoltre, sappiamo anche che la struttura e la didattica del biennio delle superiori non si sono adattati al fatto che l’obbligo arriva a 16 anni. Dobbiamo quindi chiederci quanto ci dovrebbe essere di unitario, nella formazione tra i 14 e i 16 anni. Anzi, in maniera più radicale, forse andrebbero seguite le indicazioni di chi suggerisce che il periodo di crescita dei ragazzi tra gli 11 e i 16 anni andrebbe pensato come un percorso unitario.

Tutti questi spunti dovrebbero portare a riflettere di nuovo, con calma, sulla riforma dei cicli scolastici, piuttosto che a proporre precipitose riduzioni del percorso formativo.

Infine, la didattica. Questa che è la parte più importante del lavoro scolastico è la più trascurata negli interventi di riforma e nel dibattito pubblico. Eppure è qui che si gioca tutto. E bisogna dire a chiare lettere una cosa che viene in realtà taciuta: nella maggior parte delle scuole italiane dalla media in su, la didattica prevalente è una didattica frontale, che segue lo schema rigido spiegazione-interrogazione/verifica, una didattica in cui la cosa più importante è trasmettere dei contenuti. Chi non si adatta a questo schema inciampa, cade, e alla fine viene espulso dal sistema. Nella scuola secondaria, di primo e secondo grado, la trasformazione della didattica non è mai avvenuta. Lo mostra anche il fatto che tutti i docenti continuano a essere ossessionati dal fattore tempo: il leitmotiv è “non ce la faccio a fare il programma, non ho tempo”. Se accade così sempre, sistematicamente, vuol dire che c’è qualcosa che non va nella struttura. È arrivato il momento di essere sinceri, su questo terreno, di ammettere che questa didattica sta collassando. E avere il coraggio di promuovere davvero, e non solo nei dibattiti tra pedagogisti e intellettuali, una didattica in cui i ragazzi sono sempre attivi, in cui non conta tanto la quantità di sapere oggettivato che hanno ritenuto e che possono ripetere in una interrogazione, ma il lavoro che fanno per elaborare conoscenze e sviluppare competenze. E il clima in classe, che a quel punto non è più di imposizione e controllo, da parte del docente, ma di collaborazione reciproca.

Per fare questo bisogna essere radicali. Per cambiare la didattica e rendere attivi i ragazzi in classe, il rapporto con i programmi deve diventare molto più libero. Bisogna accettare che i contenuti possono cambiare da studente a studente, che la quantità di conoscenze passa in secondo piano rispetto alla capacità di penetrare dall’interno, con attività autonome, alcune conoscenze ben definite. Che il lavoro in profondità conta più del lavoro in estensione. L’ossessione del “tempo che non basta per fare il programma” deve cadere perché l’obbiettivo non deve essere “fare il programma”, ma far lavorare bene i ragazzi. A scuola gli allievi non devono più stare dietro i banchi ad ascoltare il docente dell’ora in attesa che arrivi quello dell’ora dopo. Gli allievi devono fare: pensare, leggere, scrivere, discutere, guardare, consultare ecc., in una organizzazione dell’orario totalmente diversa. Il centro del lavoro docente non dovrebbe essere insegnare ma progettare e realizzare condizioni di apprendimento. Questo rimetterebbe in discussione anche una visione della valutazione dei docenti solo individuale (cfr. sopra), dal momento che il lavoro didattico stesso diventerebbe collegiale.

Perché però si possa fare questo, è necessario rimettere in discussione il punto di arrivo di tutto il percorso scolastico: l’esame di stato del secondo ciclo (il cosiddetto “esame di maturità”). Attualmente, il carattere rigido e nozionistico di questo esame penalizza chi fa una didattica attiva e non strettamente trasmissiva, chi non allena i ragazzi a rendere bene sotto interrogazione. Allo stesso tempo, non si può dire che questo esame permetta di conoscere realmente le competenze degli allievi. Una riforma interna della didattica dovrebbe partire dalla revisione totale dell’esame di stato conclusivo del secondo ciclo.

Riproduciamo qui l'articolo di Mauro Piras, Un altro anno a scuola: un nuovo anno?, pubblicato sul “Mulino” n. 4/14, pp. 558-566.