Quella forza inarrestabile che spinge l'Europa a unirsi. Autorevoli storici dell'integrazione hanno sostenuto che l'Europa politica nasce, cresce e procede di crisi in crisi. L'Europa, in effetti, è la risposta ai problemi che sovrastano le nostre vite nazionali: la questione franco-tedesca, il crollo del sistema di Bretton Woods, la caduta del muro di Berlino, la dissoluzione della ex Jugoslavia.

Di fatto, a indicarci una via comune sono sempre stati i nostri problemi comuni. Non è un caso che proprio oggi, nell'oceano di incertezze in cui navighiamo, lo schema della crisi torni a fornire una valida chiave di lettura per capire cosa stia accadendo intorno a noi. Non si dovrebbe mai invocare la Storia mentre la si sta vivendo: a cercarla nel presente si sbaglia sempre. Ma il Consiglio europeo del 26-27 giugno scorso ha innegabilmente il sapore del momento storico: per il contesto in cui si è collocato, per gli argomenti di cui si è discusso, per le decisioni che in quella sede sono state prese.

Primo: il contesto conta. Esattamente un secolo fa, il 28 giugno 1914, cominciava la Prima guerra mondiale: il presidente Van Rompuy ha non a caso convocato i capi di Stato e di governo a Ypres, piccola cittadina fiamminga simbolo della Grande Guerra. Si è scritto che Kohl e Mitterand furono due grandi leader europei perché impregnati di sentimento tragico della Storia: aiutati dal luogo, anche i ventotto di oggi hanno saputo alzare lo sguardo. Grazie alle Storia, certo, ma anche grazie alla politica, perché la politicizzazione senza precedenti che ha caratterizzato le ottave elezioni europee si deve anzitutto all'interpretazione estensiva che gli attori politici hanno saputo dare delle riforme di Lisbona finalmente entrate in vigore.

Secondo: l'agenda conta. Spinti dalle impellenti necessità del presente, i nodi politici che i governanti hanno messo sul tavolo erano di un'intensità inconsueta: si è parlato di politica interna (crescita, competitività, lavoro, rinegoziazione del "patto sociale europeo"), di politica estera (quali relazioni con Ucraina e Russia?), per poi affrontare lo spinoso nodo istituzionale, poiché il Consiglio era anche chiamato a indicare il nuovo presidente della Commissione da sottoporre al voto del Parlamento europeo.

Terzo: le decisioni contano, e tutte le decisioni prese, piacciano o meno, sono accomunate da un'innegabile matrice europeista. Un fatto che colpisce, poiché complice il basso profilo politico della Commissione Barroso e il montante euroscetticismo, erano anni che il Consiglio agiva solo e unicamente come luogo del ribasso degli Stati membri.

Due sono, a mio giudizio, le decisioni europeisticamente più rilevanti, decisioni che testimoniano la reale bidimensionalità del cambiamento europeo, fatto di approfondimento interno e di allargamento esterno. In primo luogo, il Consiglio ha votato Jean-Claude Junker a maggioranza qualificata. Due novità enormi in un corpo solo: mai prima d'ora era stato utilizzato questo sistema di voto - come dimostra l'ira del premier Cameron, ci si era sempre accontentati di un unanime compromesso al ribasso - e mai prima d'ora il Consiglio aveva preso in considerazione l'esito delle elezioni europee, e dunque la composizione del Parlamento di Strasburgo, per nominare il capo dell'esecutivo europeo. Ciò non è accaduto unicamente perché sono cambiate le regole - il comma 7 dell'art. 17 TUE si limita a dire che il Consiglio deve votare «tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo» - ad avere vinto è la visione politica dell'Europa: la scelta di ogni famiglia europea di indicare un candidato alla presidenza della Commissione ha creato un precedente virtuosissimo, aprendo nuovi spazi per una vera democratizzazione dell'Unione.

La seconda decisione d'avanguardia che i governi hanno deciso di prendere, riguarda invece il non facile processo di allargamento sui Balcani: in pochi lo sanno, ma da venerdì scorso l'Albania è il sesto candidato ufficiale all'ingresso nell'Unione. Sebbene la notizia riguardi la seconda comunità di stranieri presente nel nostro paese e rappresenti anche un notevole successo diplomatico del nostro governo, nessun risalto mediatico è stato dato a questa svolta. Il piccolo stato balcanico, il più debole dell'area, aveva presentato la sua domanda di adesione nell'aprile del 2009. Per due volte la Commissione si era espressa in favore dell'ufficializzazione della candidatura, e per due volte (novembre 2012 e dicembre 2013) il Consiglio aveva rigettato tale raccomandazione. L'unanimità dei governi necessaria alla concessione dello status - così come, lo ricordiamo, sarà necessaria per l'apertura dei negoziati d'adesione, nonché per l'ingresso nell'Ue - è arrivata il 24 giugno, in Lussemburgo, durante il Consiglio Affari Generali che preparava il Consiglio europeo. L'Italia, che aveva inviato al tavolo negoziale il sottosegretario alla presidenza Sandro Gozi, ha così vinto una delle sue storiche battaglie diplomatiche, ammorbidendo le reticenze di Stati di primo piano come Francia e Regno Unito, per altro irrigiditi dalle recenti vittorie di Marine le Pen e Nigel Farage.

Il proverbiale e virtuoso circolo "allargamento-approfondimento" che, di crisi in crisi, ciclicamente riattualizza il progetto europeo, sembra essersi rimesso in moto: è questa la vera forza che spinge l'Europa a unirsi. Capirlo è cosa buona è giusta, perché è in questo mutato scenario politico che, oggi, prende avvio il nostro semestre di presidenza. Speriamo, questa volta, di non cominciare con pizza, mandolini e kapò.