Le università del nostro Paese stanno cambiando a causa di interventi legislativi e di innovazioni istituzionali. Allo stato attuale, l’impatto maggiore sulla vita quotidiana di docenti e ricercatori l’ha avuto la creazione di un’agenzia nazionale per la valutazione della ricerca (Anvur), cui la legislazione introdotta negli ultimi anni attribuisce competenze molteplici, che riguardano la valutazione della ricerca in senso stretto, ma si estendono anche al reclutamento e alla didattica. Chiunque frequenti l’ambiente accademico è al corrente delle vivaci polemiche che l’operato dell’Anvur ha scatenato. Un passaggio cruciale come dovrebbe essere quello di introdurre forme di accountability in un settore tradizionalmente geloso della propria autonomia è diventato purtroppo il fattore scatenante di una battaglia ideologica in cui non pochi hanno impiegato toni degni di miglior causa.

Alcuni aspetti discutibili nel disegno istituzionale dell’agenzia (che in molti casi opera di fatto come un organismo di policy, oltre che come un controllore), e non pochi errori che probabilmente si potevano evitare, hanno offerto il destro a chi voleva negare del tutto la legittimità della valutazione per mettere in discussione il principio stesso su cui essa si fonda. Al contrario, altri hanno fatto, non della valutazione, ma dell’operato dell’agenzia, un dogma che non è possibile mettere in discussione, pena la scomunica in quanto nemici del progresso. A poco più di tre anni dall’insediamento del Consiglio direttivo dell’Anvur sarebbe opportuno tirare le somme (in tutti i sensi, anche quelli più prosaici) e valutare ciò che si è fatto. Difficile, tuttavia, che ciò avvenga se non si esce dall’atmosfera di lotta tra il bene e il male che ha caratterizzato questi mesi.

Una pausa di riflessione, e un ripensamento complessivo del lavoro fatto fino ad ora, non solo nel campo della valutazione della ricerca, sarebbe particolarmente opportuno alla luce di cambiamenti di lungo periodo che stanno investendo tutte le università del mondo, di cui chi lavora in quelle italiane sembra far fatica a rendersi conto, probabilmente perché distratto dal clamore delle polemiche cui abbiamo accennato. Proprio in questi giorni, il settimanale "The Economist" (nel numero del 28 giugno) ha sintetizzato queste trasformazioni individuando tre fattori di mutamento principali che stanno investendo tutte le istituzioni di Higher Education del mondo, in misura diversa a seconda del livello di internazionalizzazione delle loro attività. Al primo posto c’è la crisi nel finanziamento, che ha visto molte delle università scaricare i costi sempre maggiori delle proprie attività sugli studenti. Lo strumento dei prestiti, che anche nel nostro Paese ha alcuni difensori molto attivi nel promuoverne la causa attraverso i mezzi d’informazione, comincia a mostrare i propri limiti, in una situazione in cui i guadagni dei futuri diplomati potrebbero essere insufficienti per onorare il debito contratto per pagarsi gli studi. Se si aggiunge a questo fatto la tendenza di buona parte dei governi dei Paesi sviluppati – sia di destra sia di sinistra – a ridurre le risorse destinate al finanziamento delle università, non è difficile rendersi conto che le prospettive per il futuro non sono confortanti.

Nel lungo articolo pubblicato dall'"Economist" si riporta il parere di un’analista di Moody’s che si spinge fino al punto da paventare una “spirale della morte” di fallimenti, almeno per quelle università che non saranno in grado di reggere la pressione finanziaria. Infine, c’è la rivoluzione tecnologica legata agli sviluppi della rete, che sta cambiando a fondo i modi di trasmissione della conoscenza e le modalità dell’insegnamento. Non c’è bisogno di essere un fanatico dell’e-learning (io non lo sono affatto) per rendersi conto che oggi abbiamo accesso a una quantità di materiali (lezioni, conferenze, corsi interi, strumenti per la didattica) che un tempo erano fuori dalla portata di chiunque non fosse nelle immediate vicinanze, o non fosse comunque in grado di procurarsi (con dispiego di tempo e risorse) riproduzioni artigianali di tali contenuti.

Non per la prima volta, in questo Paese, corriamo il rischio di continuare a combattere una guerra finita e di farci cogliere impreparati da un nuovo conflitto che si profila all’orizzonte. Difensori dell’università dei bei tempi andati e cantori del modello corporate che si è imposto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso si stanno accapigliando sulle spoglie di qualcosa che potrebbe ben presto sparire del tutto. Accecati dalle rispettive intolleranze non si rendono conto che, ancora una volta, il futuro è già qui, e noi non siamo pronti.