La lettura israeliana. La strage al Museo ebraico di Bruxelles ha il suo esecutore materiale. Un ventinovenne francese di origini algerine, Mehdi Nemmouche, è stato arrestato dalla gendarmeria alla stazione di Marsiglia. Con sé, in una borsa, le armi dell’attentato. A stretto giro, altri jihadisti finiscono dietro alle sbarre a Bruxelles e in Francia.

Al di là di ogni ragionevole dubbio, l’attentato del 24 maggio ha una matrice antisemita: come Mohammed Merah in Francia – l’omicida razzista che terrorizzò Tolosa nel marzo 2012 – anche Nemmouche proviene dai ranghi dell’islamismo radicale. Come Merah e altri simpatizzanti della causa qaedista in Europa, anche Nemmouche rintraccia nell’ebraismo e nel suo legame costitutivo con il destino di Israele un obiettivo legittimo di scontro. Come Merah e gli aggressori che appena quattro giorni fa hanno assaltato a Parigi due giovani ebrei davanti alla sinagoga, anche Nemmouche ritiene gli ebrei uno dei target della sua jihad contro l’Occidente.

Il premier Netanyahu, in Israele, sembra non aver perso tempo, dichiarando ad alcune ore dall’agguato omicida di Bruxelles, e con il consueto equilibrio dialettico che lo contraddistingue, che “ci sono elementi dell’Ue che sono pronti a condannare la costruzione di qualche appartamento a Gerusalemme, ma non condannano o condannano debolmente l’assassinio di ebrei”. A dire il vero, hanno prontamente replicato da Bruxelles, l’Alto rappresentante Lady Ashton è stato tra le prime autorità internazionali a condannare con decisione la strage al Museo ebraico. E analoghe condanne sono arrivate a stretto giro da Parigi, Londra, Berlino e dalle altre capitali europee. Ciò che più interessa, però, è quello che Netanyahu ha detto subito dopo: in sostanza, che la strage è stata resa possibile anche dalla debolezza con cui i Paesi europei sostengono le rivendicazioni del popolo ebraico e della sua nazione.

Il governo israeliano offre una lettura dei fatti di Bruxelles che rafforza gli elementi di consequenzialità tra la dimensione etnica e religiosa del popolo ebraico e la sua affiliazione politica e nazionalistica

In altre parole, il governo israeliano offre una lettura dei fatti di Bruxelles che rafforza gli elementi di consequenzialità tra la dimensione etnica e religiosa del popolo ebraico e la sua affiliazione politica e nazionalistica: gli ebrei sono colpiti in quanto simbolo di Israele nel mondo, ragion per cui secondo questa narrazione la protezione della sicurezza dei cittadini di religione ebraica passa necessariamente attraverso il rafforzamento delle politiche a sostegno di Israele. Per quanto rozzo, il ragionamento non è estraneo agli stessi qaedisti in Europa, nella misura in cui anche per loro il nesso tra ebraismo e sionismo è strutturale. ‘Uniche’ voci dissonanti, l’Europa e una parte dell’opinione pubblica israeliana, per la quale i fatti di sangue di Bruxelles non chiamano in causa l’atteggiamento dell’Europa verso Israele. E per quanto riguarda i 28 Stati membri, il tema dei rapporti Ue-Israele è secondario rispetto alla minaccia rappresentata dagli ex combattenti dell’islamismo radicale in Medio Oriente: come tanti altri, anche Nemmouche era andato in Siria a combattere a fianco delle milizie fondamentaliste. Come molti suoi compagni, anche Nemmouche – dopo anni di indottrinamento ideologico – aveva dovuto fare i conti con il paradosso di una guerra combattuta tutta tra musulmani. Come altri nelle banlieu francesi, anche Nemmouche ha infine trovato una ragione di vita nella sua jihad personale (ma per capire quanto sia personale bisognerà aspettare l’esito delle indagini) condotta non più in Medio Oriente, ma in Occidente e contro l’Occidente stesso.

Se da una parte, quindi, il nesso tra dimensione religiosa/storica e politica degli ebrei ovunque essi siano è violentemente riproposto attraverso l’atto terroristico del 24 maggio, e ribadito con finalità opposte dal primo ministro israeliano, per l’Europa la tragedia del Museo ebraico segna non solo una triste pagina nella storia dell’antisemitismo europeo, ma anche l’apertura di un nuovo fronte domestico. Sono quasi un migliaio gli europei che per motivi religiosi e ideologici si recano ogni anno in Medio Oriente, dove prendono parte ai combattimenti tra sciiti e sunniti, soprattutto in Siria, Libano e Iraq. Di questi, molti tornano a casa dove presto si dedicano all’organizzazione di cellule operative di fondamentalisti. Di fronte a tutto ciò, e nel quadro delle garanzie alla libera circolazione previste nel Trattato di Schengen, i mezzi predisposti da Europol (l’Ufficio di Polizia Europeo) rischiano di essere drammaticamente inadeguati.