Uno Stato bi-nazionale? L’esito fallimentare dei recenti negoziati israelo-palestinesi sotto egida statunitense riapre il delicato dibattito sulle opzioni politiche che lo Stato ebraico ha di fronte a sé.

A quella che negli ultimi vent’anni è stata la via maestra, la soluzione “due popoli per due Stati” sostanziata in innumerevoli processi negoziali (Oslo II, Taba summit, Clinton Parameters, Annapolis, Roadmap for Peace, etc.), ora si aggiunge con prepotenza la soluzione che mira a risolvere la diaspora palestinese all’interno dei confini di un unico Stato, esteso longitudinalmente dal fiume Giordano al Mediterraneo. Uno Stato, si noti bene, in cui la popolazione palestinese sarebbe numericamente superiore a quella ebraica.

Secondo questo disegno, che sebbene non sia nuovo è sempre più discusso in conseguenza del progressivo sfarinamento dei negoziati incentrati sulla soluzione dei due Stati, Israele diventerebbe uno Stato bi-nazionale (di ebrei-israeliani e palestinesi). Per i sionisti radicali in Israele e nei Territori Occupati, questa opzione prevede necessariamente l’esercizio autoritario degli interessi della comunità sionista, a discapito dei principi democratici: una riedizione del regime degli Afrikaner a Città del Capo, con una minoranza relativamente consistente che detta legge sulla maggioranza degli individui.

Per gli israeliani moderati e progressisti, invece, la soluzione bi-nazionale vorrebbe dire rinunciare alla loro stessa ragion d’essere

Per gli israeliani moderati e progressisti, invece, la soluzione bi-nazionale vorrebbe dire rinunciare alla loro stessa ragion d’essere: riconoscere la conformazione demografica prevalentemente palestinese del nuovo Stato, e con essa l’inevitabile fine del progetto sionista all’interno dei confini di Israele del 1949 (gli unici riconosciuti dalla comunità internazionale).  

Il giovane capogruppo del partito del premier Netanyahu, l’avvocato gerusalemita Yariv Levin, ha recentemente preannunciato la presentazione di una nuova legge fondamentale tesa a garantire l’esistenza di Israele quale “Stato del popolo ebraico”. La proposta, che ha ricevuto l’immediato endorsement pubblico del premier, entra con violenza nel dibattito sul futuro della pace tra israeliani e palestinesi. In assenza di una soluzione condivisa basata sul principio “due popoli per due Stati”, e con l’opzione dello Stato bi-nazionale in sensibile ma costante crescita nell’opinione pubblica, infatti, l’accentuazione della caratterizzazione etnocratica del futuro Stato (del popolo ebraico) sembra preannunciare una svolta autoritaria nei rapporti con l’Autorità Palestinese a Ramallah, e più in generale un ulteriore, ennesimo raffreddamento nei rapporti tra Gerusalemme e la comunità internazionale.

Abilmente, la coalizione di governo dice che l’intento è soltanto quello di ribadire e rafforzare il carattere ebraico di Israele. Che Israele sia definito già oggi “Stato ebraico” nella Legge fondamentale dello Stato (Freedom of Occupation Basic Law, 1994) gli esponenti di governo si guardano bene dal dirlo. Quello però che nascondono sfrontatamente è che la Legge fondamentale del 1994 definisce Israele “Stato ebraico e democratico”, mentre la proposta Levin mira a circoscrivere la definizione di che cos’è Israele ai soli attributi etnici: uno Stato ebraico a prescindere dalla composizione demografica della sua popolazione. L’iniziativa di governo sembra entrare in collisione anche con la Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele, nella parte in cui essa promette di “assicurare completa uguaglianza dei diritti politici e sociali a tutti suoi abitanti a prescindere da religione, razza o sesso”. In altre parole, Netanyahu sa che se la soluzione è quella bi-nazionale, deve fare oggi tutto il possibile per assicurarsi che domani il controllo dello Stato rimanga saldamente nelle mani degli ebrei-israeliani. E ciò, se necessario, anche a scapito degli stessi principi fondamentali dello Stato.

Per molti sionisti radicali in Israele e Cisgiordania, la violazione dei principi democratici è poca cosa se serve a preservare, in Israele, uno spazio di libertà per gli ebrei nel mondo

Per molti sionisti radicali in Israele e Cisgiordania, la violazione dei principi democratici è poca cosa se serve a preservare, in Israele, uno spazio di libertà per gli ebrei nel mondo. È tuttavia dubbio come la perpetuazione delle differenze etno-nazionali in Israele e verso i Territori Occupati possa aiutare la causa della lotta all’antisemitismo e al razzismo nel mondo. Ed è invece certo che lo stralcio del riferimento alla natura democratica dello Stato di Israele dalle sue leggi fondamentali potrebbe produrre effetti dirompenti sul rapporto tra una rassegnata comunità internazionale e uno dei suoi più ingombranti partner. Tutto ciò, è utile ricordarlo, proprio mentre l’Autorità Palestinese gioca le sue carte nei consessi internazionali per il riconoscimento legale dello Stato di Palestina: in altre parole, per l’upgrade diplomatico destinato nelle intenzioni di Ramallah a riequilibrare i poteri negoziali nella regione.