Le imminenti elezioni europee e i toni accesi della campagna elettorale non permetteranno al presidente del Consiglio dei ministri di incassare, prima del 25 maggio, l’approvazione in prima lettura del progetto di riforma costituzionale presentato dal ministro Maria Elena Boschi. Non tutti i mali vengono per nuocere: ci sarà più tempo per discutere. Oggi, all’Università di Milano, i costituzionalisti italiani discutono i contenuti della riforma. Lunedì prossimo, presso la sede del Partito democratico, si potranno confrontare tecnici e rappresentanti politici, per tentare di sciogliere le fratture che separano la maggioranza renziana e la minoranza cuperliana. Tre sono i punti qualificanti della proposta: il superamento del parlamentarismo “perfetto e paritario” per un modello di bicameralismo asimmetrico; l’adeguamento del governo parlamentare alle più compiute democrazie europee, nelle quali l’indirizzo politico è codeterminato dall’esecutivo e dalla sola Camera bassa; la razionalizzazione dei rapporti e delle competenze tra Stato e regioni.

Dopo la “grande riforma” voluta dalla maggioranza che sosteneva Silvio Berlusconi nel 2005 (fallita nel referendum popolare del 2006), è la seconda volta in oltre trent’anni che un progetto di riforma costituzionale è ispirato da alcune chiare scelte d’indirizzo. Si evita, così, come è accaduto anche nella “commissione dei saggi” nominata dal governo di Enrico Letta, di fare girare a vuoto la discussione su modelli astratti, proprio per l’assenza di una direzione politica.

Nel complesso il progetto di riforma costituzionale tocca alcuni nervi scoperti: nonostante la polemica politica, su quei punti la riflessione ha raggiunto da tempo un consenso nettamente maggioritario. Non si possono nascondere alcuni profili problematici. Differenziare il ruolo e le funzioni delle due Camere è perfettamente coerente con un modello di democrazia governante. Resta poco chiaro il volto del Senato: anziché rappresentare solo le regioni, come nei modelli autenticamente federali, la seconda Camera sarà composta, senza elezione diretta, dai presidenti delle regioni e da altri rappresentanti dei consigli regionali, assieme ai sindaci dei capoluoghi di regione e altri sindaci eletti da assemblee di comuni, nonché da 21 senatori nominati dal presidente della Repubblica per avere illustrato la Repubblica. In questo modo la rappresentanza del Senato è incerta e ambigua. La mediazione che ispira la proposta segna una netta vittoria dei comuni sulle regioni, che risente della debolezza di queste ultime e della tradizionale forza del municipalismo italiano. Del tutto incomprensibile, invece, l’infornata dei senatori presidenziali.

Il nuovo Senato svolgerà funzioni di raffreddamento delle decisioni politiche prese dalla Camera dei deputati e dal governo nazionale. In linea con quanto accade in Germania e Spagna, tutte le leggi dello Stato saranno approvate in via definitiva dalla Camera bassa, ma il Senato potrà chiedere di esprimersi e, in tale caso, la Camera dei deputati dovrà pronunciarsi nuovamente e, per i disegni di legge particolarmente importanti, a maggioranza assoluta. Solo per le leggi costituzionali è previsto un potere legislativo paritario: ma si tratta di una generosa concessione, perché consegna al mondo disordinato e variegato dei rappresentanti delle autonomie un potere di veto sulle riforme di sistema.

La modifica del titolo V vuole porre fine al contenzioso tra Stato e regioni, esploso dopo la sgangherata riforma con la quale, nel 2001, il centrosinistra aveva tentato inutilmente di intercettare l’elettorato “federalista” della Lega Nord. La logica seguita è quella di riportare in capo allo Stato funzioni legislative che costerebbe troppo mantenere in capo a 20 centri di spesa regionale. Non manca spazio per l’autonomia delle regioni: il progetto permette comunque politiche di bilancio più misurate su interessi di dimensione locale, coerenti con il profilo di enti territoriali destinati a misurarsi con le prospettive sempre più centripete dell’integrazione europea. Anche in questo caso le regioni escono ridimensionate nei confronti dei comuni: vengono private del potere di definire l’ordinamento degli enti locali, che torna saldamente in capo allo Stato. È un passo indietro clamoroso: rinunciare alla regione come ente di organizzazione degli interessi locali, non solo allontana il regionalismo italiano dalle esperienze federali europee, ma alimenta la storica conflittualità tra regioni e comuni, non senza comportare costi aggiuntivi per il contribuente, che avrà a che fare ancora con livelli amministrativi inutilmente ripetitivi e perciò odiosi.

Questi e altri punti richiedono un tempo sufficiente per essere adeguatamente sviluppati e per consentire una decisione il più possibile efficace: nel complesso il progetto merita di essere sostenuto, perché contiene molti ingredienti per rendere più moderne le istituzioni del Paese.