Se Henry Ford avesse chiesto ai consumatori “che cosa volete?”, questi – amava ricordare Steve Jobs – avrebbero risposto “cavalli più veloci”. Ma Ford diede loro l’automobile. La citazione torna di grande attualità nel momento in cui in tutta Europa, ma soprattutto in Italia, a emergenze e bisogni nuovi si risponde con ricette vecchie. Chiedendo “crescita” e “sviluppo” nel momento in cui l’“innovazione distruttiva”, che ha il suo motore nel web, non è alla fine ma nel mezzo del suo ciclo.

Non passa infatti giorno senza che un oggetto, un prodotto, un’esperienza che per decenni si è creduto fossero “per la vita” o a “tempo indeterminato” non si scoprano improvvisamente inattuali. Come il posto di lavoro o il telefono “fissi”. Nel 2012 in sei mesi è stato battuto il record dei contratti di lavoro di un solo giorno: 690 mila. D’altronde batte il tempo del temporary e del mobile (più di 20 milioni i possessori di smartphone alla fine del 2013, quando 3 anni prima erano poco più di 2). Intanto nel nostro Paese anziché “prove di futuro” tengono banco i “ritorni al futuro”.

Il dilagare del vintage ben oltre il confine del fashion (dalla 500 al Cocktail Martini), tra un remake cinematografico e un remastered video-musicale, danno il giusto tratto glamour a un Paese in cui, per dirla con Flaiano, la situazione continua a essere grave ma non seria. Se è vero che i problemi attuali (debito pubblico alle stelle, crisi della politica, mancate liberalizzazioni) sono gli stessi che avevamo nel 1992, e che, nel bel mezzo di una società appena approdata alla “now generation” e all'instant marketing”, servono, rispettivamente, 8 e 4 anni per accorgersi che la legge elettorale è anticostituzionale e che il governatore del Piemonte, Roberto Cota, è stato eletto illegittimamente.

Nel discorso d’inizio anno il presidente Barack Obama ha dichiarato che “presto nulla sarà più come prima”. Da noi invece continua ad andare in onda uno spettacolo vagamente consolatorio ma irreale. Visto che c’è chi si aggrappa al +0,3% del Pil previsto per quest’anno, anche se in prospettiva più della crescita a tenere banco sarà la decrescita (infelice). Nel 2013 secondo l’Istat la ricchezza netta pro capite è tornata a livello del 2002.

Ora bisogna guardarsi dalla futurologia giornalistica che dà per imminenti i droni che consegneranno a casa la pizza e le stampanti 3D che potranno stampare, oltre agli spaghetti Barilla, pure i tessuti (umani). Resta però il fatto, drammatico, che siamo un Paese dove al tempo della Pec le università italiane continuano a chiedere di iscriversi inviando ricevuta di versamento delle tasse attraverso raccomandata. Mentre la giustizia ordinaria impiega sette anni per arrivare a sentenza.

Lenti, lentissimi, ma soprattutto incapaci di avviare il reset di sistema. Di sintonizzarsi con il “mondo nuovo” che il web sta configurando. Google a inizio anno ha ricordato come “made in Italy” sia una delle parole più cliccate al mondo. Peccato che  solo il 12% delle Pmi italiane sia attrezzato per l’e-commerce. Ancor più avvilente, però, è che l’83% delle aziende fallite nel 2013 non fosse su internet.  Essendo quasi certo che se chiedessimo alle molte aziende in difficoltà e alle principali categorie e associazioni produttive cosa servirebbe per uscire della crisi e tornare a crescere risponderebbero non banda larga e super wi-fi, ma poste e collegamenti stradali più veloci – e naturalmente credito più facile – con ciò dimentiche che i crediti “deteriorati” delle banche italiane, per quasi il 90% erogati ad aziende, ammontano a 300 miliardi di euro, dei quali 155 inesigibili. Tra i quali sicuramente quelli in carico all’83% di aziende fallite che non usavano il web.