Cartoline dalla maratona. Un fiume di gente trasforma il cemento dei grigi viali di Manhattan in un mosaico colorato che ondeggia sulle morbide pendenze della Grande Mela. Colline che sembrano vette da scalare per chi le corre con trenta chilometri sulle gambe. È questa una delle cartoline che si portano a casa quanti tagliano il traguardo della maratona di New York.

Alcuni sono atleti affermati. Fermano il cronometro poco dopo le due ore e corrono ammirando un panorama del tutto diverso. Nessun mosaico colorato. Davanti ai loro occhi il grigio monocromatico è ravvivato solo da qualche pallino che rappresenta il target da superare. Altri sono maratoneti solo per un giorno. Entusiasti poco allenati che vogliono filmare e fotografare tutto. La gara che attraversa i cinque distretti della Grande Mela l’hanno colta al volo e lottano contro vesciche e mali che mai avrebbero immaginato quando si trovavano nella mischia festosa alla partenza

A popolare le strade di New York è però soprattutto una marea di amanti della corsa, podisti di ogni credo, età, razza e colore che arriva da tutti gli angoli della terra per partecipare a quello che è ritenuto l’appuntamento sportivo più bello dell’anno. Più delle Olimpiadi, più dei mondiali di calcio. Per alcuni newyorkesi doc, la maratona batte anche l’interno Nba.

Nella folla dei partecipanti c’è anche Joe, un non vedente accompagnato in gara da due atleti che lo guidano dritto al traguardo. Quando passa il quindicesimo chilometro si ferma qualche minuto a casa di Julie, un’atleta che da anni incarica le figlie che restano a casa di offrire il brunch a tutti quelli che – tifosi e partecipanti – vogliono un ristoro familiare. Quello tra Julie e la maratona è stato un amore a prima vista. L’anno che si è trasferita a New York si è affacciata dalla finestra per incitare i corridori. Dodici mesi dopo è scesa in strada per dargli un cinque, l’anno successivo ha aperto le porte di casa sua a tutti e quest’anno è passata dall’altra parte delle transenne con le scarpette da corsa ai piedi.

A cercare di arrivare addirittura oltre il traguardo sono quest’anno dieci ragazzi della comunità di San Patrignano, volati oltre oceano per mostrare che dalla droga si può uscire e che superata questa sfida ce ne sono anche altre più entusiasmanti, ma comunque complesse.

Ad aiutare loro come tutti gli altri atleti è la colonna sonora ufficiale dell’evento. Un festival di musica live, dove si esibiscono band di tutti i generi musicali. Dal jazz di Brooklyn, alla musica classica di Manhattan, passando per i ritmi travolgenti di Harlem.

Oltre alla musica vera e propria, a spingere al traguardo i corridori sono i cori di tifosi urlanti che non li abbandonano neanche per qualche metro. A New York si corrono quarantadue kilometri in un bagno di folla che accoglie gli atleti appena scendono dal ponte di Verrazzano che collega Staten Island a Brooklyn.

Bambine con le treccine si danno il cambio per offrire da bere agli atleti. Appena abbandonano i tavoli del ristoro si trasformano in tifose. Alcune signore hanno un cartellone per incitare papà o mariti, ma quasi tutti sono in strada per incoronare gli atleti le celebrità della giornata. Tagliato il traguardo a Central Park, il maratoneta si trasforma in una divinità trattata con ammirazione e reverenza da tutti. Tanto la signora che esce da Luiss Vuitton che il giovane punk che suona in metropolitana si fermano a stringere la mano a podisti avvolti in un poncho termico che sembra un mantello reale in grado di coprire ogni fatica.

A New York le gambe le fanno girare loro, i tifosi. Non si sono allenati come gli atleti più devoti, ma urlano così forte che spingono quasi tutti al traguardo meglio di qualsiasi test di velocità. Non importa il tempo di arrivo, molti tifosi aspettano anche gli ultimi, il fanalino di coda di un gruppo di 80mila atleti che arriva quando è già buio.

Anche i più lenti sentono scandito il loro nome da tifosi sconosciuti. Quanti guardano questa scena imparano la prima lezione. Chi pensa di avventurarsi alla maratona di New York deve curare in primis il suo look. Indossare una maglietta con il proprio nome vale più di dieci allenamenti. Garantisce un tifo scatenato e personalizzato nei chilometri in cui non bisogna ascoltare le gambe che alzano bandiera bianca.