Debray, Baudrillard, Augé, Sorkin e altri studiosi come l’italiano Minca indicano da tempo nella cosiddetta «disneyficazione» della realtà una corrente di deriva del nostro mondo vissuto. Il processo estetizzante e alienante risulta inarrestabile per esempio a Venezia, dove ha spacciato il passato e – v’è da temere – il futuro dell’Indifferentissima. Piazza San Marco è osservata dall’alto delle grandi navi di passaggio neanche fosse l’esemplare raro di uno zoo museificato; d’altronde, già Fellini nel suo Casanova a metà anni Settanta aveva presagito la plastificazione della Laguna.

Ad assecondare più o meno consapevolmente l’egemonia di Topolino contribuiscono coloro che in teoria ne sarebbero gli avversari: la sinistra inebriata è partecipe della Festa Immobile, ovvero ha gambe di legno timorose e inette nell’esplorare strade diverse dalla spettacolarizzazione della politica o dall’esposizione in vetrina della vita quotidiana, della cultura e degli spazi urbani. In Italia, poi, zelanti fantasisti quali siamo, abbiamo saltato a piè pari le residue distanze tra realtà e finzione e concepito un grottesco reality show lungo il ventennio berlusconiano, che non accenna a finire di là dall’interminabile crepuscolo dello stesso Berlusconi. Si perpetua insomma quella propensione alla «clownerie autoritaria» di cui ha scritto Luca Bottura su queste pagine.

Lo spettacolo è saturo ed è logoro, divora la realtà, ma ha difficoltà a digerirla, gli resta sullo stomaco e proprio non va giù; a volte torna su ed è una vista ributtante. La crapula lascia intravedere l’insidia del secolo visionario, un’eredità del tardo Novecento: lo show si spaccia per reality, appunto. Bye bye George Orwell. Il Grande Fratello non è più il dittatore occhiuto di Oceania, ma siamo noi che – guardati – guardiamo, ipnotizzati sul sofà. Il panottico carcerario elevato a metafora del potere dal genio filosofico di Foucault si tramuta in uno sguardo di massa, febbrile nella prigione degli specchi. Guardoni ed esibizionisti coincidono: tutti in preda al “virus dannunziano” diagnosticato per primo da Alberto Savinio.

Un segnale in controtendenza viene ora dal cinema che, memore forse della natura «atletica» sbandierata da Majakovskij, si sta dando una mossa e ha ripreso a indagare orizzonti meno artificiosi. Il nuovo corso del cinema non coltiva la pretesa di un’impossibile “oggettività”, anzi, esplicita o non nasconde il punto di vista dell’osservatore nel campo osservato. Questo sguardo «antropologico» giusto a Venezia ha ottenuto un viatico nella recente Mostra internazionale d’arte cinematografica: la giuria presieduta da Bernardo Bertolucci, per certi versi il più “melodrammatico” dei nostri maestri, ha assegnato il Leone d’oro al documentario Sacro GRA di Gianfranco Rosi (non un inedito assoluto: Cannes nel 2004 consacrò con la Palma d’oro Fahrenheit 9/11 di Michael Moore). Il film di Rosi riserva un’ottica tanto straniante quanto empatica rispetto ai personaggi e alle situazioni del Grande Raccordo Anulare, la cinta stradale di Roma, un po’ come fece Iain Sinclair dieci anni fa nel suo London Orbital, pellegrinaggio a piedi sulla circonvallazione londinese M25 per esorcizzare il vulnus del Millennium Dome (libro e Dvd, il Saggiatore ed.).

La distanza, l’occhio «giornalistico», la documentazione frutto di un biennio di indagini lungo il Raccordo romano insieme al paesaggista Nicolò Bassetti, sono difatti contemperati con un gusto dell’aneddoto, dell’episodio sapido e del sorriso (taluni dialoghi appaiono talmente “veri” da sembrare sceneggiati). Nel ventennale della morte di Fellini, Sacro GRA è in tal senso più «felliniano» di La grande bellezza di Paolo Sorrentino, del quale nei mesi scorsi si parlò come di un aggiornamento di La dolce vita e che rappresenterà l’Italia nella corsa all’Oscar. E, incredibile a dirsi, anche il botteghino sta premiando Sacro GRA con incassi degni di nota (è all’ottavo posto nella classifica dei film più visti).

Non è un caso isolato. Alla Mostra di Venezia diretta da Alberto Barbera altri titoli hanno confermato che il cosiddetto «cinema del reale» è necessario rispetto al deficit del giornalismo d’inchiesta, e, d’altro canto, è talvolta più dotato di qualità «narrative» rispetto alla fiction. Accade così che solo grazie a Ukraine Is Not a Brothel dell’australiana Kitty Green i mass media si siano accorti che il movimento Femen (la protesta delle belle ragazze a seno nudo) abbia ben poco del «femminismo» finora attribuitogli. Di là dagli obiettivi delle Femen, contro Putin o Berlusconi, il film rivela che le pugnaci fanciulle sono state concepite a mo’ di brand globale (“Come McDonald’s”) e vengono eterodirette da un guru-ideologo dietro le quinte. Mentre The Unknown Known del premio Oscar Errol Morris, prossimamente nelle sale, getta luce sulla figura di Donald Rumsfeld, consigliere di quattro presidenti USA e due volte segretario della Difesa nella cui veste ha gestito la guerra in Afghanistan e in Iraq dopo l’11 settembre 2001. Nel film egli si presta con docilità pari al narcisismo a ricostruire le tappe della sua carriera in una lunga e prismatica «confessione» che sembra sceneggiata da Machiavelli, Pirandello e… Andreotti. Rumsfeld non rinnega alcunché, gigioneggia e filosofeggia sul/col cinismo evidentemente essenziale nella gestione del potere. In particolare appare attratto dalle definizioni, dai giochi di parola al limite della sciarada, dal lessico noto e ignoto della politica e della storia. Morris pare assecondarlo, ma inframmezza le teorie e le memorie di Rumsfeld con immagini di repertorio su Saddam Hussein o sul carcere di Guantanamo che fanno da contrappeso critico alle sue parole, oltretutto elaborate in grafismi che le rendono astratte. Più volte, ripresi dall’alto, vediamo l’oceano e poi una palude: l’anelito espansivo e il torpido/torbido dell’identità americana che sempre convivono (da ultimo rispetto alle tragiche vicende siriane).

Sempre dagli USA è appena giunto The Act of Killing di Joshua Oppenheimer sul genocidio anti-comunista nell’Indonesia del generale Suharto (da mezzo milione a un milione di vittime nel 1965-‘66), che a sua volta ibrida testimonianza e fiction. E persino un film hollywoodiano come l’imminente Captain Phillips – Attacco in mare aperto di Paul Greengrass mostra il protagonista Tom Hanks alle prese con la pirateria somala nel Golfo di Aden, riservando sequenze di inatteso e crudo realismo quasi documentario. Niente eroi, ma un comandante americano che ha paura e giovanissimi disperati corsari che ne hanno più di lui. Altro che Disneyland.