Sì, c’è del marcio nella classe dirigente del Paese che, secondo Roberto Benigni, ha la costituzione più bella del mondo. In effetti, non c’è soltanto l’incapacità dei partiti di dare agli italiani una rappresentanza politico-parlamentare al passo con l’abc della legalità costituzionale; ad essa si somma l’inettitudine dei sindacati di correggere un sistema di regole ad altissimo tasso di de-costituzionalizzazione e tenuto insieme da poco più che spago e chiodi. Non è vero però che, una volta toccato il fondo, non si possa che risalire. Il fatto è che il fondo è sempre più in basso di dove si pensa di trovarlo. Ne costituiscono sicuri indizi tanto il fatto che un accordo aziendale “separato” abbia potuto togliere ai dipendenti della Fiat il diritto di scegliere la Fiom come proprio rappresentante sindacale quanto la stentata esecuzione della sentenza emanata dalla Consulta lo scorso 23 luglio che glielo ha restituito.
Con la pazienza e la pacatezza di un vecchio docente di diritto del lavoro che, rifacendo per sommi capi la storia dell’art. 19 dello statuto dei lavoratori, la Corte sintetizza come si arrivò al referendum del 1995 e insiste nel sottolineare che la pratica razionalità della norma riscritta dai referendari non l’ha mai convinta del tutto. Infatti, le perplessità della Corte affioravano sia nella pronuncia che dichiarò ammissibile il referendum sia, e ancora di più, in una pronuncia immediatamente successiva, nella quale chiariva come e perché la tecnicalità della firma in calce al contratto aziendale avesse il difetto di piegarsi facilmente a strumentalizzazioni che feriscono a morte la libertà sindacale. Più che un criterio selettivo intelligente, a suo parere si trattava di un cieco automatismo capace di estendere la legittimazione a costituire rappresentanze aziendali anche a sindacati inautentici, domestici o addomesticabili – “gialli, si diceva una volta; “di comodo”, li chiama l’art. 17 st. lav. Nello schema di ragionamento seguito dalla Corte assume perciò un rilievo determinante il dato di contesto consistente nella frequenza con cui si stipulano contratti collettivi “separati” in seguito alla rottura dell’unità di azione sindacale che, salvo strappi, ha connotato il dopo-costituzione. È in conseguenza della lacerazione del tessuto unitario che il rischio da neutralizzare non è più soltanto lo “sbilanciamento in eccesso” consistente nel rigonfiamento artificioso dei soggetti ammessi nell’area del privilegio legale, ma anche uno “sbilanciamento in difetto” consistente nell’estromissione di chi vi era dentro legittimamente. Per questo, il 23 luglio la Corte ha optato per una pronuncia additiva vincolante erga omnes, impedendo così il compiersi di una imprevedibile (fino alla fine del secolo scorso) “eterogenesi dei fini” dell’art. 19. Il quale, riformulato per allargare la cerchia dei sindacati con diritto di cittadinanza in azienda, nella Fiat dei giorni nostri si era trasformato nel suo contrario: ossia, in “un meccanismo di esclusione” della Fiom, di cui nessuno contesta la capacità di rappresentare gli interessi della collettività di riferimento.
Come è evidente, la pronuncia è una scheggia della regolazione legale che non c’è. Per questo, la causa è finita, ma la vescica non può dirsi sgonfiata. D’altra parte, è proprio perché non è dato sapere se e quando il vuoto regolativo sarà colmato che la Corte si è spinta ad affermare in motivazione che la qualità di soggetto “significativamente rappresentativo a livello aziendale” non conferisce le sole prerogative specificamente previste dal tit. III della normativa statutaria. Conferisce anche il diritto a negoziare; ragion per cui l’inadempimento dell’obbligo corrispondente si colora di anti-sindacalità e, come tale, è sanzionabile ex art. 28 st. lav. Può darsi che così la Corte sia andata oltre il petitum; ma ha giustamente ritenuto di non varcare i “limiti di rilevanza della questione sollevata dai giudici” rimettenti e, stabilito che c’era la rilevanza, ha avuto il coraggio di non fermarsi alla domanda.