Qualche giorno fa, incontrato nel suo studio milanese, Vittorio Gregotti raccontava di una delle sue prime esperienze da docente universitario. Durante un esame, nel tentativo di incoraggiare uno studente incerto, chiese quale fosse l’ultimo libro letto dal futuro architetto: il ragazzo balbettò, salvo, alla fine, citare un manuale che stava preparando per un nuovo esame. Il saggio e paziente professore a quel punto spiegò che intendeva “altri” libri, non testi di architettura: romanzi, ad esempio. Dall’altra parte il vuoto. Un ventenne nel pieno dei suoi studi universitari non aveva, di fatto, quasi mai letto un libro di letteratura. Non è, purtroppo, un caso estremo. Negli anni ho maturato una certa insofferenza nei confronti dei miei amici che insegnano all’università e che non mancano di infarcire i loro discorsi a tavola con aneddoti sulla crassa ignoranza dei loro studenti. Eppure è difficile ignorare come e quanto sia cambiato, per chi sta entrando nella vita adulta, il concetto di avere o farsi una “cultura”. Nella scuola e fuori da essa.

Un paio di giorni fa, Claudio Giunta (che è sì un professore universitario ma, almeno, non mi risulta abbia mai raccontato in pubblico episodi spiritosi sull’impreparazione o l’inadeguatezza dei propri studenti), mi ha fatto leggere una sua cosa per “Internazionale”, dove tra l’altro riprendeva una citazione da Hannah Arendt. Questa:

“La società moderna, nella sua disperata incapacità di formulare giudizi, è destinata a prendere ogni individuo per ciò che egli stesso si considera e si professa e a giudicarlo su questa base. Una straordinaria fiducia in se stessi e l’esibizione di questa fiducia susciterà perciò fiducia negli altri; la pretesa di essere un genio desterà negli altri la convinzione di trovarsi di fronte a un genio. Si tratta solo della degenerazione di una vecchia e provata regola di ogni buona società, secondo la quale tutti devono essere capaci di mostrare ciò che sono e di presentarsi nella giusta luce. La degenerazione avviene quando il ruolo sociale diventa, per così dire, arbitrario, quando cioè è completamente staccato dalla sostanza umana effettiva, quando un ruolo svolto con coerenza viene accettato acriticamente come la sostanza stessa. In una simile atmosfera diviene possibile ogni genere di frode”.

La Arendt (sì, “la” Arendt, chiedo scusa ma mi viene così, politicamente molto scorretto) parlava di Hitler. Però le sue parole ci aiutano anche oggi. Ad esempio, a capire l’irrilevanza della gran parte del dibattito pubblico che, come ricorda Giunta, “è tutto soltanto un libero scambio d’opinioni tra persone che sanno esattamente le stesse cose, cioè le stesse parole che stanno intorno alle cose, che potrebbero scambiarsi le parti e di fatto se le scambiano, il parlamento è pieno di ex giornalisti”. Un mondo dove, appunto, diviene possibile ogni genere di frode. E dove, sin da piccoli (si fa per dire, sin dalla prima, vera prova “intellettuale” che tocca tutti o quasi: la maturità), si viene invitati a far credere di sapere ciò che non si sa, di capire ciò che non si è capito. Citando Canetti, il grande e scurissimo Canetti; o Claudio Magris, per aggiornare il fondale mitteleuropeo. O ancora economisti di gran moda come Zingales e, per par condicio, il Nobel Krugman.

Una insegnante di scuola superiore spiegava questa mattina a “Prima pagina”, con piglio da dirigente scolastico che fa molto caso all’efficienza e ai risultati ottenuti nel proprio istituto sulla base delle prove Invalsi, come tutti noi che siamo rimasti un po’ sorpresi dalle tracce, anzi dai “documenti” che accompagnavano la prova d’italiano, non avessimo capito nulla. Non si tratta di avere fatto o no nel programma gli autori richiamati, spiegava: i testi segnalati, piuttosto, oscuri o meno che siano, andavano presi come spunto per una riflessione.

Sicché, ancora una volta, si tratta di riuscire a far credere a chi poi ci valuta d’aver capito tutto, o quasi. Che poi nessuno dei maturandi, o certamente troppo pochi, da quella traccia venga invogliato non dico a comprare ma almeno a leggere capolavori come La lingua salvata o Auto da fé poco importa. Perché ciò che conta, alla fine – sempre, naturalmente e cultura a parte – è soprattutto il voto.