Che la Convenzione per le riforme sia naufragata ancor prima di essere varata è forse una buona notizia. Aver accantonato un organo posto al di fuori delle stanze dei bottoni equivale ad aver scartato uno strumento (o qualcosa, nella sostanza, di molto simile) che in passato non ha mai funzionato, quando si pensava che ricorrendo a commissioni speciali (come la commissione Bozzi del 1984) o bicamerali (la “De Mita-Iotti” o la “D'Alema” del 1997) si sarebbe potuto fare quello che i leader delle forze politiche egemoni non hanno mai voluto fare: aggiornare la Costituzione nelle pagine lasciate volutamente aperte dalla Costituente (bicameralismo paritario, governo come comitato esecutivo della maggioranza, regioni deboli).

Una buona notizia, sì, ma non per tutti allo stesso modo (come nel caso di Stefano Rodotà, contrario alla Convenzione perché, come altri, sostanzialmente contrario a modificare comunque la Costituzione). Una buona notizia perché ci si potrebbe illudere che, dopo oltre quarant’anni di discussioni sterili, forse è arrivato il momento di fare sul serio; specie dopo il severo monito del presidente Napolitano, nell’alto discorso reso in occasione del suo secondo mandato.

La soluzione che sembra profilarsi in luogo della Convenzione appare, però, solo una variazione sul tema. Dovrebbero farsi carico del processo di riforma le due commissioni affari costituzionali di Camera e Senato, congiuntamente, sulla base di proposte di un comitato di "saggi". Dall’altisonante e giacobina Convenzione, che avrebbe dovuto mette il Parlamento di fronte all'ipotesi da prendere o lasciare, a un comitato in piccolo, una "conventicola" di esperti che, con le sue proposte, dovrebbe illuminare la strada dei nostri rappresentanti. Non è singolare che un autorevole editorialista del «Corriere della Sera», in un tweet, abbia praticamente bocciato questo ennesimo tentativo: il problema, sostiene Antonio Polito, sarà scegliere i costituzionalisti, che sono centinaia, e che si "scanneranno".

Non è un buon viatico, né una bella rappresentazione dei "costituzionalisti", veri o presunti tali. È noto, infatti, che questi sono in netta maggioranza conservatori, e che pochi di loro hanno una visione autenticamente riformista e concreta. Tuttavia, anche se questo è comunque un problema non da poco, il punto rimane un altro. Una seria riforma delle nostre istituzioni, nei punti nevralgici del bicameralismo, della forma di governo parlamentare, delle autonomie regionali e locali, non può essere affidata solo a dei saggi, che questi provengano o meno dall’accademia.

Oggi, dopo il cumulo di carta straccia sulle ipotesi di riforma, dopo la profonda crisi di legittimazione dei partiti, acuita dalla forte presenza di un movimento politico antisistema, dopo il fatto storico della rielezione di Napolitano caricata di virtù salvifiche della patria, la via da seguire è solo una diretta assunzione di responsabilità del governo Letta e delle forze che lo sostengono. Diventa allora necessario procedere per singoli punti, nel quadro di una visione d’insieme, tradotti in altrettanti disegni di legge di iniziativa governativa: consegnati al Parlamento, magari sulla scorta di pareri di esperti sui quali, però, sarà importante essere pronti a procedere a colpi di fiducia parlamentare, se si dovessero registrare l’ostruzionismo e le resistenze politiche che finora hanno impedito qualsiasi decisione. In una parola: al punto in cui ci troviamo, non possiamo più separare i tavoli, quello delle scelte politiche che contano (come quelle sull’Imu o sull’incandidabilità di Silvio Berlusconi) e quello delle riforme. Se veramente si tratta di un nuovo “governo del presidente”, è bene che la volontà del fare espressa da Napolitano sia portata a effetto, senza tentennamenti e incertezze.