La quarta votazione per l’elezione del presidente della Repubblica ha sancito la fine del progetto di aggregazione di uno schieramento di centrosinistra sotto l’etichetta del Pd. Anche se molti commentatori hanno, sull’onda del momento, attribuito quest’implosione a una carenza di leadership, sarebbe ingeneroso e poco lungimirante non comprendere come in realtà le radici di questo fallimento siano molto più profonde e risalgano alle modalità con le quali il partito è stato fondato e al sistema di governance interno sul quale si è strutturato.

In primo luogo quella che è stata definita come la “fusione a freddo” tra i resti di un partito post-comunista e le residue schegge che rimanevano di parte della Dc. Non soltanto con tutte le differenze di valori, che hanno creato perenni conflitti su temi sensibili come quelli etici e dei diritti, ma anche con il peso delle differenze organizzative e di radicamento sul territorio. Mentre i resti del Pci entravano nel nuovo partito con parte consistente della precedente struttura organizzativa ancora in vita, ciò non si verificava per gli ex Dc-popolari. Già questo fattore determinava differenze significative che andavano ad aggiungersi a quelle sui valori e contribuivano, insieme a rivalità storiche e orientamenti correntizi presenti sia nell’ex Pci sia nei popolari, a determinare gli aspetti futuri del partito: una divisione in frazioni che ha sempre prevalso sugli orientamenti unitari. Con la conseguenza che la somma algebrica della fusione è risultata inferiore alla somma aritmetica dei conferimenti. Ciò contribuisce anche a spiegare perché gli unici due successi del centrosinistra nella storia della cosiddetta Seconda Repubblica siano venuti da quelle operazioni di “federazione” che hanno condotto ai due governi Prodi.

In tal modo caratterizzato, il Pd ha assunto una peculiarità che ne ha determinato il collasso: la debolezza strutturale e la perenne mancanza di legittimazione interna della leadership. Non che ciò non fosse chiaro agli esponenti del partito, anche se, con tutta probabilità, confusamente chiaro. Ma le risposte sono state del tutto inadeguate.

Per sopperire a questa carenza di legittimazione della leadership si è fatto ricorso allo strumento delle primarie; ma tanto più il ricorso alle primarie era frequente, tanto più indeboliva la leadership stessa, invece che rafforzarla. Addirittura si è messo in piedi un mostro mai visto sotto il profilo dell’organizzazione di un partito: un segretario che per potersi candidare al ruolo di premier ha dovuto sottoporsi al confronto con uno sfidante, ibridando sistemi parlamentari europei di premiership tipici delle democrazie con partiti di massa, e regimi presidenziali come negli Stati Uniti, dove le primarie si fanno soltanto per individuare il candidato presidente in assenza di una leadership di partito.

La necessità di un perenne ricorso a conferme di legittimità della premiership nel partito ne ha determinato una elefantiasi burocratica e un’incapacità di attrarre voti da un elettorato che non fosse già la propria platea di seguaci. Basta soltanto ricordare due casi recenti. Il primo risale al novembre 2011, quando, con la caduta del governo Berlusconi, il Pd optò, “per il bene dell’Italia”, secondo lo slogan allora lanciato, per il governo tecnico presieduto da Monti, fortemente sponsorizzato dal presidente della Repubblica. In quella fase il Pd avrebbe sicuramente vinto le elezioni anticipate: il Movimento 5 Stelle non aveva ancora forza sufficiente, il Pdl era in forte calo, il centro di Monti non si era ancora costituito. Ma il Pd non era pronto: non aveva un candidato premier (sic!) perché il suo segretario non era legittimato, occorreva fare le primarie, era necessario del tempo per organizzare la macchina. Era, ed è sempre stato, un pachiderma burocratico, incapace di adattarsi ai tempi rapidi della politica, che talvolta richiede decisioni veloci.

Dopo un anno e mezzo, alle elezioni del febbraio 2013, il Pd registra una mezza vittoria, frutto di situazioni degli schieramenti profondamente cambiate, di una crescita esponenziale del M5S, della formazione del centro di Monti e del recupero di Berlusconi. Ma frutto anche, se non soprattutto, di una sciagurata campagna elettorale, rivolta solo ed esclusivamente al “popolo delle primarie”. Conseguenza questa, ancora una volta, della debolezza strutturale della leadership, della necessità di tenere insieme un partito caratterizzato da potenti forze centrifughe, dal perenne bisogno di volgere lo sguardo al proprio interno ogni volta che si tentava di parlare al Paese. L’implosione non poteva tardare, ed è avvenuta, anche simbolicamente, con la bruciatura delle due candidature di Marini e Prodi, segnalando così la fine delle due strategie che hanno caratterizzato il centrosinistra nell’era di Berlusconi: quella delle larghe intese e quella del moderno bipolarismo.

Alla sinistra non resta che riflettere su come ricostruire un progetto. Ma sarà necessaria non meno di una lunga marcia.