Tirando le somme. Il ballottaggio di domenica 2 dicembre ha chiuso la questione per quello che riguarda il centrosinistra. Pierluigi Bersani ha vinto e sarà il candidato della coalizione per la carica di presidente del Consiglio. Ha vinto largamente, e come riconosciuto dallo stesso Renzi questo chiude ogni diatriba sul possibile ruolo delle regole. Sul cammino di Bersani verso Palazzo Chigi si frappongono adesso tre ostacoli. Primo, gli avversari del centrodestra, che per la verità si presentano all’appuntamento elettorale in modo a dir poco sgangherato. Secondo, i vari movimenti e movimentini di centro che faute de mieux si sforzano di dare un senso alla loro presenza nella politica nazionale promuovendo la leadership (e a parole anche l’agenda) di Mario Monti. Terzo, il sistema elettorale, che riformato o no sarà comunque congegnato in modo tale da evitare che dalle urne esca un governo, secondo la logica perversa delle elezioni del 2006 che continua incredibilmente a persistere sette anni dopo.

E poi? E poi le primarie ci hanno mostrato con estrema chiarezza che nella politica del XXI secolo posizionamento e strategie di un partito dipendono dalle sue collocazioni ideologiche e dal suo programma, ma in grande misura anche dal leader da cui è guidato. Il Pd di Bersani è identificabile come un partito erede diretto della sinistra tradizionale, di profilo socialdemocratico e laburista, facilmente coalizzabile con i partiti (post?) comunisti collocati alla sua sinistra, che d’altra parte non disdegna pratiche parlamentari di entente cordiale con il centro post-democristiano. Il Pd di Renzi avrebbe probabilmente assunto altre sembianze: il partito di una sinistra nuova e diversa, dai rapporti distaccati con il sindacato, a forte vocazione maggioritaria, orientato a sfondamenti elettorali al centro piuttosto che a patteggiamenti in sede parlamentare. Ognuno scelga il Pd che gli piace, già a partire dalla sede più propria, quella del congresso previsto nel 2013. Nel frattempo, però, occorre non considerare più la personalizzazione come lo sterco del diavolo berlusconiano, ma piuttosto riconoscere che un leader rafforzato da un moderato tasso di personalizzazione è cosa benefica e necessaria per un partito finora inchiodato sotto il 30% del consenso degli elettori.

C’è dell’altro? Certamente sì. Mentre scriviamo sono in corso le “parlamentarie” del Movimento 5 Stelle. Il procedimento elettorale per la verità è abbastanza oscuro, tant’è che critiche e sarcasmi si sprecano. Tecnicamente però si tratta semplicemente di primarie online riservate agli iscritti, e se il M5S sarà in grado di presentare un rendiconto credibile del suo operato saremo in presenza della prima selezione aperta e democratica dei candidati al parlamento realizzata in Italia. Teniamo presente che forme di consultazione on line degli iscritti sono praticate persino dal Partito Conservatore inglese, non precisamente una setta di populisti scalmanati. Si aggiunga che qualche settimana fa la Legaha celebrato le sue “sondarie”, che tanti esponenti di spicco del centrodestra ritengono le primarie l’unica via di uscita dalla crisi generata dalla fine conclamata della leadership di Berlusconi, che proseguono – per adesso in silenzio – le primarie per i sindaci, in attesa delle primarie bilaterali organizzate dai due schieramenti in vista della elezione del sindaco di Roma. Insomma, le primarie di Renzi (sic!) paiono costituire uno spartiacque come furono a loro tempo le primarie di Prodi. Dopo, il ruolo delle primarie e l’atteggiamento della classe politica nei loro confronti non sarà più lo stesso. Da domani (in Lombardia) e per un futuro prevedibilmente abbastanza lungo, buone primarie a tutti.