La situazione attuale del sistema politico italiano, l’incapacità dei partiti di prospettare al Paese una via d’uscita dalla situazione di asfissia in cui la nostra economia si trova, nonché riforme costituzionali e istituzionali idonee a ripristinare l’autorevolezza e l’efficacia decisionale della politica, creano una situazione che potrebbe favorire l’affermarsi di un capo carismatico, di un soggetto che, attraverso l’appello diretto al popolo, ridefinisca l’agenda politica, spezzi la continuità del presente ordine costituzionale e collochi il Paese in un nuovo corso. Siccome la crisi dura da vent’anni, tentativi di questo tipo sono stati fatti e i nomi li conosciamo tutti: Bossi, Berlusconi e oggi a suo modo si prepara Grillo.

I primi due una soluzione almeno la proponevano: la secessione e un programma liberistico. Il terzo non si capisce che cosa proponga, se non l’eliminazione del ceto politico oggi al potere. La modestia e l’insostenibilità delle proposte politiche di Bossi e Berlusconi si manifestarono rapidamente, poiché la secessione non la voleva neppure il Nord e il Paese rifiutava un programma liberista puro e le sue necessarie durezze: Berlusconi non aveva certo la convinzione politica e l’autorità morale per insistere su un programma che alla "sua gente" non piaceva. Il fallimento di questi primi tentativi populistico-cesaristici era inevitabile: la botte dà il vino che ha e dalla botte italiana non poteva scaturire De Gaulle, uno dei pochi casi in cui appello al popolo e forzature costituzionali produssero una grande riforma e poi una rapida transizione dal carisma all’istituzione, dal cesarismo alla democrazia dei partiti, nel frattempo profondamente trasformati dalla gabbia costituzionale che il generale francese gli aveva imposto. Uno dei pochi casi di cesarismo benefico.

Che cosa c’entra Mario Monti con i leader che ho appena menzionato e con tutti gli altri cui è appropriato attribuire il carattere di cesarismo? Barbara Spinelli sembra criticare il Monti di oggi per il suo cesarismo e ne vede un indizio nel suo rifiuto di sottoporre il suo programma a una prova elettorale, a presentarsi come capo-partito. Ma tra cesarismo ed elezioni – quando la situazione di partenza è democratica e il leader non usa la forza militare per affermarsi – c’è un rapporto diretto, non inverso: un capo carismatico ha bisogno di conferme plebiscitarie. Monti potrebbe diventare un leader cesaristico proprio se accogliesse l’invito di Barbara Spinelli a presentarsi alle elezioni, se il suo programma come capo di un partito o di un movimento ottenesse un grande consenso elettorale e se, per attuarlo speditamente, riuscisse a far passare, de jure e/o de facto, una forzatura costituzionale di grande rilievo. No, oggi Monti è solo un tecnico “chiamato” alla politica in una situazione di emergenza nazionale. Di ciò molti si dispiacciono, pensando che la sua azione sarebbe più efficace se egli “discendesse” (o salisse) in politica: preconizzando un grande successo per il movimento da lui creato, già immaginano un Parlamento nel quale gli ostacoli alle riforme che intende attuare si ridurrebbero di molto. […]

La crisi italiana sta dentro – e vi aggiunge del suo – alla più grave crisi di regolazione del capitalismo postbellico e alla concomitante crisi dell’Eurozona e della stessa Unione europea; e quello che vi aggiunge di suo è in larga misura dovuto all’inettitudine e alla “veduta corta” – come avrebbe detto Tommaso Padoa-Schioppa – del ceto politico del nostro Paese, sia negli ultimi trent’anni della Prima Repubblica, sia nei venti della Seconda […] Risulta dalla congiunzione della crisi di regolazione mondiale ed europea e della crisi italiana, nonché dalla difficoltà di rimediare a cinquant’anni di riforme mancate o incomplete – intervallate dagli affannosi tentativi di recupero dei governi tecnici – una prospettiva di ristagno di lungo periodo, di disoccupazione, di disagio sociale profondo. […]

Un tema è imminente e di periodo breve: come distribuire la comune penuria in modo più equo e come ridefinire il sistema di Welfare in modo da metterlo in grado di affrontare vaste aree di povertà, di povertà vera, che inevitabilmente si dilateranno. Un tema è di lungo periodo: come rendere più efficiente e meno oneroso il sistema che fornisce servizi pubblici – dalle scuole agli ospedali, dalla polizia alla giustizia – e come stimolare una maggiore produttività nel settore privato: si tratta di riforme che inevitabilmente prendono molto tempo per andare a effetto. Così come prenderà tempo una revisione delle procedure, delle regole, dei rapporti di lavoro da cui è disciplinata l’intera pubblica amministrazione, sia quella centrale sia, e soprattutto, quelle periferiche, il cui disegno costituzionale andrà probabilmente modificato.

Sempre in merito al lungo periodo, il problema dei problemi: il Mezzogiorno. Le risorse sono scarse e le poche disponibili dovranno essere utilizzate per contrastare la povertà. Ma il Mezzogiorno non pone principalmente un problema di risorse, ma uno di disegno istituzionale: dopo gli esiti insoddisfacenti della Nuova programmazione, l’ultima grande strategia adottata, che cosa resta da tentare? E, ancora, un tema di natura internazionale, ma che sta acquistando un peso sempre maggiore nel ridefinire la stessa politica interna […] è l’Unione europea: fermarsi o andare avanti? Altro tema: oggi è sotto gli occhi di tutti lo scandalo della corruzione. […] Si impone infatti un indirizzo politico prioritario, che i governi dovrebbero sostenere per un periodo molto lungo, e senza variazioni di rilievo a seconda del loro colore politico: solo in questo caso, in altri Paesi, la corruzione è stata ridotta in modo significativo.

[…] veniamo all’ultimo tema, alla massima prova per il ceto politico: quella di disegnare un sistema costituzionale, istituzionale ed elettorale capace di tener insieme l’esigenza di rappresentanza e quella di governabilità. […] Nel caso italiano è un compromesso che sembra impossibile raggiungere: l’ultimo tentativo serio di “completare la transizione”, come si diceva in tempi che oggi ci sembrano lontani – la bicamerale di D’Alema – è finito come tutti sanno e la sola idea di tentare di nuovo lascia incredula la gran parte dei politici.

Se si vuole reagire a una prospettiva di declino, a un ristagno punteggiato da sporadici episodi di governo tecnico – non risolutivi perché troppo brevi e rapidamente annullati dal ritorno alla cattiva politica –, se si vuole sradicare la minaccia di un vero tentativo cesaristico, questi sono i problemi che la “politica normale”, quella di cui si auspica il ritorno dopo Mario Monti, deve affrontare e risolvere. C’è qualche possibilità che ci riesca? Il mio giudizio è negativo ed è per questo, insieme alla forte preoccupazione per la situazione economica in cui versiamo, che ritengo un governo Monti il minor male in cui possiamo incorrere dopo le prossime elezioni. Un minor male perché non mi faccio illusioni. Monti, se si realizzeranno le condizioni che descriverò più avanti, governerà ancora come “chiamato”, non come capo politico di una sua maggioranza. Poiché quella che lo sosterrà sarà una maggioranza molto eterogenea, egli avrà già il suo daffare a tenere in ordine i conti, a continuare su una rotta europea, a mediare tra le iniziative e i veti dei partiti. Ma non avrà il potere necessario ad affrontare in modo diretto e risoluto i problemi di riforma che ho prima ricordato, incancreniti e difficilissimi. Un potere che non ha avuto, a causa dei contrasti tra i partiti che lo sostenevano e dell’ostilità o dello scetticismo della dirigenza pubblica nei confronti di un animale politico così insolito (aggiungo che, salvo che per la politica europea ed estera, il mio giudizio sul suo governo non è interamente positivo).

 Il male minore, dicevo. “Minore” è un aggettivo comparativo e dunque esige il confronto con possibili alternative. Quali sono? Per poterle scorgere limitiamoci ai partiti che hanno sinora sostenuto il governo Monti. L’Udc, o il gruppo centrista allargato che forse la sostituirà, non è un’alternativa, visto che è d’accordo con la “chiamata” di Monti dopo le elezioni: Casini è un antesignano che già auspicava un governo di emergenza nazionale un anno e mezzo prima che venisse di fatto costituito. Un governo di centrodestra è del tutto improbabile. Il Pdl è in un tale stato di crisi che, nonostante gli strepiti dei colonnelli di An, favorirebbe il ritorno di Monti al solo scopo di guadagnar tempo, ridefinire la propria identità e difendere all’interno di un governo “tecnico” le sue note posizioni. Al momento sembra irrealistico che Berlusconi voglia cedere a Casini la guida del centrodestra e scomparire definitivamente – le uniche condizioni da cui il leader Udc potrebbe farsi tentare – e in tal caso, comunque, si tornerebbe a Monti. L’unica alternativa realistica – se si danno le condizioni elettorali che vedremo in seguito – è dunque un governo di centrosinistra, guidato dal segretario del Partito democratico. Ed è questa che, se penso al bene del Paese, ritengo inferiore a un governo Monti, pur indebolito dall’eterogenea maggioranza che lo sosterrebbe.

Ancor prima delle scomode alleanze che il Pd di Bersani sarebbe indotto a fare per assicurarsi una maggioranza in Parlamento; ancor prima dell’inesistenza, tra i dirigenti di questo partito, di un rappresentante dell’Italia in Europa e nel mondo con un prestigio lontanamente paragonabile a quello di Monti; ancor prima di tutto ciò, il mio giudizio discende da una valutazione negativa della maturità ideologica del Partito democratico, dell’analisi della crisi italiana che contribuisce a diffondere tra i suoi militanti, delle prospettive future che preannuncia. L’alleanza con Sel non è dovuta a un puro calcolo elettorale, ma a una affinità profonda: il Vendola-pensiero […] è largamente diffuso tra i militanti e i dirigenti del Pd. Fornire e diffondere la narrativa – storica, economica, ideologica – adeguata all’attuale situazione non era certo facile, ma doveva essere il grande compito del Partito democratico, come partito di centrosinistra: è sul piano culturale e ideologico che si registra infatti il suo principale insuccesso. Assai prima della drammatica situazione di oggi, prima della crisi economica mondiale e delle sue ripercussioni aggravate in Italia, è dagli anni Novanta del secolo scorso, dal collasso del regime sovietico e dalla crisi del Pci – dunque dalla caduta della conventio ad excludendum – che la sinistra avrebbe dovuto affrontare il compito di ridefinirsi come partito riformista, all’interno di un’economia capitalistica in via di globalizzazione. Destra e sinistra sono polarità permanenti dello scontro politico democratico e il tempo in cui perderanno la capacità di orientarlo non è sicuramente all’orizzonte. […]

Quando Barbara Spinelli legge in una frase di Mario Monti (“la classica distinzione destra/sinistra va sostituita da quella tra evasori e non evasori”) una sua estraneità alla politica, credo che si sbagli. Destra e sinistra restano importanti, ma è vero che quelle due categorie dicono poco su un problema per noi cruciale come quello dell’evasione fiscale. Se il lettore torna indietro ai temi che ho indicato come importanti per un risanamento del nostro Paese, può facilmente rendersi conto che solo nel primo – un problema di distribuzione del reddito – siamo chiaramente nell’ambito di applicazione delle nostre due categorie, mentre per gli altri – problemi di efficienza amministrativa, organizzazione della giustizia, produttività, disegno degli organi costituzionali, per non dire di quelli relativi alla politica internazionale e soprattutto all’Unione europea… – è dubbio che esse abbiano qualcosa da dire in via di principio. Sono problemi che hanno più a che fare con la costruzione di un Paese onesto, civile ed efficiente a partire da una eredità storica infelice, e con la definizione del suo ruolo in un contesto europeo e internazionale, che con la distribuzione del reddito e le pari opportunità di tutti i cittadini.

Poi, naturalmente, qualsiasi decisione si prenda in merito, essa può avere ripercussioni sulla distribuzione dei “beni sociali primari”, direbbe Rawls, e dunque può essere diversamente valutata da destra o da sinistra: decisioni di questo tipo Monti ne ha prese parecchie in quest’anno e dovrà prenderne ancor di più nei prossimi, se rimane al governo. Più in generale, e indipendentemente dall’asse destra/sinistra, nessuna decisione è soltanto “tecnica” o facilmente risolvibile alla luce di un ovvio “bene comune”: tutte sono controvertibili alla luce di diversi valori e interessi e di diverse previsioni sui loro effetti. È per questo che serve la politica democratica, il cui cattivo funzionamento ha aperto la strada a Monti: serve per ricondurre decisioni difficili alle scelte maggioritarie dei cittadini. Ed è per questo che anche a me piacerebbe che non ci fosse bisogno di Monti. Di un capo di governo che, credo più per le circostanze in cui si trova a operare che per convinzione personale, tende a presentare ogni sua decisione come inevitabile e non ideologica. Ma è arrivato il momento di sostituire Monti con Bersani? […]

I problemi non risolti ritornano with a vengeance, direbbero gli inglesi, inaspriti e confusi, in una situazione di crisi: al di là del conflitto generazionale, e se vogliamo misurare le attuali vicende con il metro della storia e non con quello del cameriere, di che altro si tratta nello scontro tra Bersani e Renzi se non della riemersione di una frattura mai composta, di una dualità che una sinistra lungimirante avrebbe dovuto ridurre facendo un discorso di verità al partito e rendendo egemone in esso, nei quadri e nei militanti, una narrativa più corrispondente alla difficile situazione nella quale ci troviamo? Alla domanda che mi sono rivolto più sopra rispondo allora così: no, purtroppo non è ancora arrivato il momento di sostituire Bersani a Monti. Purtroppo non siamo ancora pronti per una politica di cui questi nostri partiti siano attori senza tutela.

In una rivista come la nostra, a cadenza bimestrale, è impossibile (e soprattutto inutile) fare previsioni sugli esiti del prossimo scontro elettorale. Per di più raramente una previsione è stata più incerta di ora. Incerto è soprattutto con quale legge elettorale si andrà a votare, se con il Porcello maggioritario o con un Porcellino proporzionale: siccome le strategie dei partiti dipendono in modo essenziale dalla legge elettorale, questa incertezza di fondo si riflette su di esse e sulle loro possibilità di successo. Al momento il centrodestra è in crisi profonda, ma non è escluso, anche se è improbabile, che questa situazione si possa ribaltare. E al momento il centrosinistra è dato in vantaggio. Ma si tratta di un vantaggio che potrebbe dissolversi, perché l’attuale posizione del suo segretario – di sostenitore del governo Monti e però critico della sua agenda – potrebbe essere messa in seria difficoltà da un abile leader di centro o centrodestra.

Di qui l’importanza delle primarie. Per quanto riguarda i problemi di cui abbiamo sinora discusso, entrambi i principali candidati sono contrari a un nuovo governo Monti anche se, nel merito politico (e dunque, probabilmente, nella strategia delle alleanze) essi sembrano avere idee piuttosto diverse. Per condurre la scelta sul piano più razionale possibile, per spazzar via giudizi superficiali e personalistici, per costringere i candidati a un esame severo e incrociato delle loro proposte, sarebbe stato il caso di indire un congresso vero, non una primaria. Tanto più perché, se passerà una legge elettorale di tipo proporzionale, è assai improbabile che il candidato vittorioso potrà aspirare alla presidenza del Consiglio. Che dovrebbe essere il vero scopo di una elezione primaria.

Due scenari, dunque. Se non passerà alcuna riforma elettorale e si andrà a votare col Porcello maggioritario, i principali schieramenti, per guadagnare il premio elettorale, saranno indotti a raschiare il fondo del proprio barile e non è escluso – se i sondaggi mettessero in dubbio la prevalenza dello schieramento di centrosinistra – che il Pd, oltre che con Vendola, si allei anche con Di Pietro. Se centro e destra non riescono a stringere un’alleanza credibile a dominanza centrista, la vittoria potrebbe allora arridere alla coalizione di centrosinistra, a dominanza di sinistra, nel caso che Bersani prevalga nelle primarie. E ammesso che il voto per Camera e Senato conduca allo stesso esito. Se invece passa un Porcellino proporzionale, l’esito più probabile è che non prevalga alcuno dei grandi schieramenti e lo stallo produca una nuova Grosse Koalition all’italiana e una nuova “chiamata” di Mario Monti. Giudichi il lettore quale di questi due scenari gli sembra il migliore alla luce dei problemi di governo prima ricordati. O meglio, il meno peggiore.