Che faccia ha il mio stomaco? Se fosse fuori di me non lo riconoscerei. Non saprei distinguerlo tra una folla di stomaci. Eppure è sempre lui, il mio stomaco, con cui sono nata e cresciuta. 

Il Satsang ha dato un volto al mio stomaco. Me lo ha fatto guardare negli occhi, me lo ha fatto accarezzare immaginandolo. E ascoltare. C'è così tanto da fare durante il Satsang. Così tanto da sentire in quel silenzio d’abbaglio. Intorno, fuori, il vuoto bianco di uno spazio grande e luminoso ti avvolge. Gli occhi vedono da chiusi, aperti non servono. Dentro si celebra la festa di milioni di accadimenti epocali che si scatenano tra centomila miliardi di cellule in ogni istante; un inno alla gioia immensa, perfettamente impagabile e che sussurra ai nostri sensi di sorridere, grati del sentirci vivi.

Il mio ascolto comincia dal quarto chakra, in mezzo al petto. Trattengo il respiro per sintonizzarmi al cuore. Prashantam ha appena finito di suonare lo shakuhachi, come fa ogni mattina poco dopo l'alba. Dieci minuti d’una musica senza tempo né misura, non addentellata ad alcuna melodia, a nessuna memoria uditiva. Solo suoni. Puri o screziati da diverse sfumature di respiro. Lunghi o pausati. Imprevedibili. In cui perdersi e non ragionare. Suoni non seduttivi né asettici, suoni da non giudicare emozionanti o spiacevoli. Un vocabolario semanticamente spoglio, dritto all’essenza: semplicemente aria, soffiata dentro un tubo di legno, che si trasforma in onde grasse e sottili, vibrazioni tradotte in impulsi elettrici, a picco giù per la scala timpanica. Dieci minuti di shakuhachi sono l'invito alla quiete assoluta del movimento e del pensiero, e inaugurano il rito quotidiano del Satsang: del “sedere nella presenza”. La musica è la via per creare il silenzio, ed ecco che qui, nella campagna verde del Nostro P.O.S.T.O. il risveglio al nuovo giorno è nel ritrovo insieme in questa sala, dove tace ogni cosa. 

Nel silenzio rotondo di chi è già dentro se stesso, Prashantam appoggia poi l'antico flauto giapponese alla sua destra e resta fermo come noi, a gambe incrociate, immobile nell'ascolto della sua sinfonia interiore per altri trenta minuti. Trattengo il respiro e seguo il cuore. All'inizio pensi che sia irraggiungibile la connessione al ritmo del suo battito. Ma quando smetti di chiedertelo semplicemente accade, diventa un incontro familiare. E il cuore, riconoscente per quel desiderato contatto, ricambia rivelando la prova della sua esistenza.

Fuori, altre venti persone come me, bianche come me negli abiti e nell'ascolto, sono immerse sprofondate nel proprio più remoto sentimento. Medita lo stomaco, il fegato fa i suoi conti, la saliva scivola lungo la mucosa esofagea millimetro dopo millimetro, con un tonfo l'epiglottide si contrae. Il silenzio si fa così muto da sentire i gorgoglii urlare. Nella stanza magica di Prashantam, tutti i nostri eventi risuonano enormi, espansi, amplificati. Una camera sola capace di tenere così tanto, dove egli ha deciso di fermare i suoi folti ricci neri. Un angolo di Toscana nascosto in un bosco, per condividere il Satsang con amici già conosciuti o giunti appena. Tutta di legno e tutta bianca la stanza, esattamente come sognata. In essa nulla sfugge al candore, che protegge ogni oggetto e dettaglio nella sua ombra lucente. Per scoprirla bisogna superare un cancello sempre aperto e soggiornare in un casale che accoglie chi è in viaggio alla ricerca del Nostro P.O.S.T.O., dove tutti siamo noi, sciogliendo la sigla “Per Osho Siamo Tutti Osho”. Qui Prashantam ha fondato la sua scuola. Una scuola di riflessologia e shiatsu, dove praticare il Divine Healing e lo studente apprende per diventare il “guaritore guarito”. Una scuola che è un grazie alla vita, come il gassho del saluto zen che a palmi giunti esprime gratitudine per chi si ha innanzi. È il grazie di quest'uomo che parla sette lingue, scappato dal Portogallo a sedici anni e che agguantò una laurea in medicina e altre tre, frequentando le università parigine del Sessantotto di Roland Barthes ed Edgar Morin. Che nel frattempo giocava professionalmente a calcio, dilettandosi persino con gli studi da mimo sotto la tutela di Étienne Decroux. Che lasciò quindi via mare la Francia, raggiungendo l'Iran e attraversando il deserto per riparare ad Abadan, sino ad approdare a Bassora e fermarsi in Kuwait. Un ragazzo che con cento dollari in tasca arrivò in Turchia e divenne venditore di tappeti in Cappadocia. Che ventiquattrenne giunse a Bangkok, "un posto dov'era più facile perdersi che uscirne com'eri entrato", che ha vissuto con le tribù aborigene dell’Australia e delle Filippine, con gli sciamani del Brasile, delle Ande e i dottori tibetani nel Sikkim. Che ha trascorso due anni in Giappone come monaco zen insieme a Koku Nishimura, Gran Maestro Tani–Ha, e che infine giunse in India. "Arrivato e mai più tornato": quindici anni trascorsi nell'ashram di Osho, a Pune. Che a quarantacinque anni si ritrovò con un’esistenza da ricominciare ancora. Con i suoi corsi, la medicina cinese, la lezione Kyo Zen, gli insegnamenti di Osho da portare in Russia, Giappone, Cina, Oceania, Sudamerica. In Europa, in Italia. Nel 2008 la scommessa del Nostro P.O.S.T.O., ove la creazione bioarchitettonica della Kyo Haku-In, la “visione del vuoto”della sala bianca, rappresenta la realizzazione ancor più recente di un sogno. “Un ambiente atteso da sempre. Uno spazio che nel bianco predispone ad aprirsi a se stessi, a guardarsi nel nostro stesso specchio”.

Solo pochi anni fa in questo spicchio di terra nei pressi di Casole d’Elsa non c'era il frutteto con i suoi quaranta alberi e il largo fico, non c’erano le erbe medicinali, né il lago con la coppia di cigni, le magnolie e la mimosa: la prima pianta piantata da Prashantam in questa terra. Oggi, attraversando il piccolo cancello di legno sempre aperto, chiunque può accedere al suo silenzioso, bianco gassho.