In tempi di frugalità scelta o prescritta dalla revisione della spesa (in italiano, spending review), l’analisi dei capitoli di bilancio per individuare i possibili tagli introdotta nel lessico governativo già da Padoa-Schioppa, c’è qualcosa che continua a cicaleggiare per intrinseca natura. Sono i festival, che a centinaia lungo la penisola si replicano o addirittura debuttano – vieppiù durante l’estate e quasi sempre grazie a preponderanti risorse statali, comunitarie o territoriali –, provando a esorcizzare con la bulimia dell’offerta l’angoscia di una depressione in ogni evidenza non solo economica.


Il "popolo di formiche", per evocare il titolo del reportage gobettiano di Tommaso Fiore, ancorché forzatamente inoperoso (formiche licenziate, disoccupate, "esodate"), non pare disposto a privarsi del canto delle cicale, che è proverbialmente monocorde e stridente.

Senza qui addentrarsi nell’improba operazione dei distinguo fra le manifestazioni, che s’imporrebbe in altre sedi, annotiamo il dominante contrappunto per cui i festival sono trame e occasioni a contrasto della cronaca politica, eppure complementari o mimetici della stessa. Un karma italiano, da decenni ormai. Sicché la polemica fra chi li difende e chi in soldoni destinerebbe ad altro i soldini degli "eventi" (c’è una sola sagra o serata fra intimi che non lo sia?) risulta tanto inveterata quanto inutile. In linea di massima, la sinistra orfana dell’egemonia gramsciana s’arrischia a difendere persino gli sprechi pur di dirsi paladina della cultura; mentre la destra e, pare, gli incalzanti movimenti cosiddetti "antipolitici" rinuncerebbero anche a esperienze positive in nome della demagogia anticulturale. Poi, non succede alcunché, e i minacciati "tagli alla cultura", dopo le consuete "mobilitazioni" e gli appelli di prammatica (astenersi grammatica) fanno deporre le forbici. E’ l’ennesimo riflesso pavloviano della crisi di idee e di governo in materia. E viene da lontano, se trent’anni fa Anna Maria Ortese annotava: "Vedo la vita senza pensiero, privata di critica, correre via come un giorno unico, monotono" (Corpo celeste, Adelphi). La monotonia delle cicale, appunto.

Vi sono, certo, tentativi di rinnovare i festival per conquistare lettori o spettatori ai bordi del tradizionale tappeto rosso (in italiano, red carpet), accostando i linguaggi simbolici – un concerto dopo una conferenza o un film prima di un incontro con lo scrittore che l’ha ispirato – e tuttavia osservandone i limiti, stando ben attenti a non farli sconfinare e a non ibridarli. C’è qualcosa di paradossale in tale osservanza dei confini, considerando che invece le arti, le visioni, le conoscenze e gli studi sempre di più s’improntano agli incroci, alla disponibilità/responsabilità delle identità plurime che sottraggono alla prigionia delle tradizioni, di cui scrive il filologo Maurizio Bettini in Contro le radici. Dunque, mentre i contenuti e gli stili accettano il métissage, i contenitori festivalieri lo rifuggono, ricorrendo al massimo all’"innocuo" alternarsi di proposte culturali e spettacolari che è propriamente "televisivo" perché asseconda l’idea del palinsesto, del flusso, dell’accumulo, del(la) varietà, dell’eccesso come valore in sé, della riproduzione del senso comune.

Nel nostro orizzonte segnato dalla confusione crescente tra esistenziale e spettacolare tipica della realtà spettacolosa (in italiano, reality show), soltanto ciò che non si adegua al "pensiero unico televisivo" invero gli si oppone. Bisognerebbe decostruire, derubricare, scompaginare, disarticolare la scansione ordinata e manierata dei contenuti che di solito si edulcorano a vicenda. Infatti l’emulazione, l’invidia, la disponibilità a seguire l’esempio altrui in ambito festivaliero non fanno che confermare lo status quo dell’"economia del protagonismo" (Gabriel Zaid), il divismo vacuo dei letterati o dei musicisti, la ritualità dei premi e delle presentazioni, la stanca ripetizione in sedicesimo di glorie irripetibili.

Questo paradigma imitativo è sommamente gradito agli enti pubblici, per i quali il festival, “l’evento”, l’epifania dei poteri e sottopoteri sul palco è finalmente legittimata all’orgasmo del consenso in apparenza impolitico, quindi prezioso per la politique politicienne in crisi di credibilità. Non si spiegherebbero altrimenti le autentiche guerre che si combattono intorno alla gestione dei festival, in Italia ben più che altrove. Per non parlare della stima dell’"indotto" dei festival in termini di presenze alberghiere e di pranzi nei ristoranti, biasimata da Caliandro e Sacco in Italia Reloaded. Il calcolo – spesso opinabile – viene utilizzato per giustificare le scelte della politica nell'utilizzo dei fondi pubblici, in particolare quelli europei, e talora appaltato dal sapientone di turno ad agenzie controllate dagli stessi enti locali. Oltretutto col risultato di ribadire l’esistente, il prevedibile, l’oleografia, il folklore, la maniera, la cartolina, sebbene "alternativa".

Laddove l’anelito all’imprevisto, al sorprendente, al meticcio, e per ciò al riflessivo, al pensoso che alligna nei passaggi decisivi è il carattere cruciale, frontaliero, dei linguaggi contemporanei. Un capolavoro come Aguirre, furore di Dio, di Werner Herzog, per fare un esempio lontano nel tempo e nello spazio, rivela "solo" scorci parziali e prospettive visionarie del Machu Pichu, dove fu girato nei primi anni Settanta. Non descrive, induce a immaginare. Il confronto di tale soffio vitale con una cittadinanza attiva, opinione pubblica e non più pubblico eccitato/assopito dalla tv, è ciò che manca alla maggior parte dei festival ed è ciò di cui necessiterebbero.