Dopo la vittoria laburista nelle elezioni municipali di giovedì (in cui il Labour è tornato a essere il primo partito inglese e ha quasi riconquistato Londra), ieri la Spd e i Verdi hanno prevalso nelle elezioni del Land dello Schleswig-Holstein (che va probabilmente verso una coalizione Spd-Verdi-Ssw); in Grecia una sinistra sparsa e frammentata ha comunque raccolto più della metà dei voti e domani i dati delle amministrative italiane potrebbero fare del Pd il primo partito. Naturalmente, il risultato più importante è la vittoria di François Hollande in Francia, che ha il potenziale di riaprire la partita sul come affrontare la crisi del debito sovrano e produrre a livello europeo un compromesso meno inutilmente doloroso di quello imposto da Angela Merkel e di fatto subito da Nicolas Sarkozy.

Il margine della vittoria di Hollande è relativamente debole (sul 3%, vale a dire un po’ più di un milione di voti), ma non dovrebbe influire troppo sul risultato delle legislative di giugno: il Front National di Marine Le Pen renderà difficile la vita all’Ump, mentre a sinistra le regole di desistenza sono ben collaudate e dovrebbero consentire ai socialisti di ottenere una maggioranza assoluta (quindi senza la necessità di fare un’alleanza programmatica col Front de Gauche e il Pcf). Inoltre, l’Ump si ritrova senza leader (e Sarkozy, come Berlusconi, aveva un suo proprio valore aggiunto in voti): anche questo influenzerà negativamente il risultato elettorale del centrodestra. Nella Quinta Repubblica i francesi hanno sempre concesso al presidente neo eletto la maggioranza. Talora, in elezioni a metà o fine mandato, hanno sanzionato le politiche presidenziali, imponendo la cohabitation, ma questo non è mai avvenuto a inizio mandato. Dunque Hollande avrà la sua maggioranza per governare in Francia e pesare in Europa. Nel suo primo discorso dopo l’elezione, Hollande ha avuto, giustamente, parole importanti sull’Europa, sottolineando che i popoli e i governi degli altri Paesi dell’Unione guardavano alla Francia per non rassegnarsi alle politiche di austerità. Il neopresidente sembra dunque determinato a cambiare il paradigma che è stato alla base della risposta europea alla crisi. Da una parte non ha molte alternative: se l’Europa non cambia rotta difficilmente potrà far meglio di Sarkozy. Anzi, essendoci ben poche riforme strutturali nel suo paniere, in breve tempo rischia di perdere terreno nei confronti dei Paesi mediterranei, che stanno facendo forzi disperati per riguadagnare competitività. Sulla strategia più crescita meno austerità riceverà sicuramente l’appoggio statunitense. L’incognita restano i Paesi europei, Italia e Spagna in primis. Per entrambi l’approccio di Hollande è preferibile a quello di Merkel. Tuttavia i rapporti di forza restano a favore di quest’ultima e quindi entrambi i Paesi mediterranei possono essere tentati da una captatio benevolentiae per apparire come i migliori alleati della Germania e i più credibili verso i mercati finanziari (soprattutto nella prospettiva di un decoupling). Se questo avvenisse, si finirebbe in un equilibrio subottimale che sarebbe a detrimento di tutti i Paesi deboli (Francia inclusa). In ogni caso, qualsiasi compromesso che finirà per prevalere a livello europeo sarà insufficiente agli occhi dei keynesiani (la domanda effettiva che sarà creata non compenserà che molto parzialmente l’austerità fiscale già attuata). Se però Hollande otterrà poco o nulla, allora saranno dolori seri, anche perchè a questo punto l’Europa avanzerà senza un asse (anche se in “Merkozy”, Merkel dominava, c’era comunque una certa coerenza nell’approccio seguito) e in ordine sparso.

Speriamo che Monti e Rajoy ne tengano conto nel formulare le loro rispettive posizioni per il prossimo vertice europeo di giugno e non si facciano troppo influenzare dall’appartenenza al campo conservatore (Rajoy) o dalla predilezione per le riforme strutturali sulle politiche di gestione della domanda (Monti).

Per concludere, quella di Hollande è una vittoria importante. I risultati delle elezioni greche mostrano che l’approccio fin qui seguito non è più tollerabile per larghe fasce della popolazione dei Paesi deboli. Occorre un’inversione di rotta e questi risultati sono chiari segnali in questo senso. Resta però da vedere se saranno recepiti a livello europeo e soprattutto dalla Germania. Un compromesso migliore dell’attuale è possibile, ma richiede una lungimiranza che, in questi anni di crisi, pochi dirigenti europei hanno dimostrato di possedere.