Immaginate pinnacoli di terra disseminati su un altopiano vulcanico. Da qualche parte si nasconde un direttore d’orchestra. Intorno a lui, tra le cuspidi torreggianti, spuntano come strani fiori, molti sparpagliati strumenti; risuonano in un concerto avveniristico nel cuore lunare della Cappadocia. Immaginate ora i fuochi di Baghdad in tempo di guerra: lo stesso direttore, che è anche violinista, si unisce al gruppo dei giornalisti al fronte, con granate che esplodono a pochi metri. Poi la corsa in pullman sotto una tempesta di sabbia, tra le greggi dei nomadi Madhan e le bare dei caduti iracheni, per agguantare un aereo diretto a Roma dove l’indomani lo aspetta Paganini, da suonare all’Auditorium. Il violinista-direttore si chiama Rodolfo Bonucci, snocciola storie musicali dell’altro mondo con la modestia di chi ti racconta d’una gita da week end. «Solo la musica mi è più cara del viaggiare. Eppure resto un viaggiatore normale», mi spiega mentre fatico a credergli. «Sono un semplice visitatore di luoghi. Arturo lo era a un grado più elevato…lui era un viaggiatore degli elementi».

Oggi Rodolfo non mi ha voluto incontrare per traslarmi nei luoghi delle sue avventure di arco o di bacchetta. Oggi è il 2 maggio, e dieci anni fa suo fratello scomparve in un tragico incidente nelle acque di Pantelleria. Il 13 maggio 2002 Arturo Bonucci avrebbe compiuto quarantotto anni.

Divisi da una piccola differenza di età, Igno e Dodo hanno condiviso le passioni intimamente seminate da un destino genetico: i viaggi della musica, certo, ma sopra di essi anche il gesto sublime del volo. «Quando sei lassù, muovi le dita pensando a Brahms. Mentre il pensiero del decollo ti fa lasciare nel retropalco ogni tensione».

Un albero genealogico e fantastico fruttato sul colle Aventino, dalla nobile radice d’una gigantessa del pianoforte, la bisnonna Livia Carlesimo, cresciuto sotto gli ampi rami dei nonni, Arturo Bonucci e Rodolfo Caporali, colossi italiani del violoncello e del pianoforte. Arturo junior seguì l’esempio del senior al punto da rendere amorosamente volute le ripetizioni del lessico familiare: pilota d’aliante di straordinaria maestria, egli incarnò il ricalco sentimentale dell’omonimo violoncellista-aviatore di cui fu nipote. Icona di estro e perizia nell’era delle due guerre, Arturo “il vecchio” fu una leggenda volante anche nel privato, capace d’incontrare l’amore della principessa egiziana Amina Fazil con un atterraggio di emergenza compiuto nei pressi della villa di lei, su una spiaggia della riviera romagnola.

Pure Rodolfo vola, con il suo parapendio spicca salti nel cielo di Castelluccio di Norcia. «Ma mio fratello era irraggiungibile: conosceva le leggi della meteorologia e dell’aerodinamica tanto da percorrere centinaia di chilometri senza motore». Viaggiatore anche di terra, Arturo macinava chilometri in bicicletta e in moto. Ma era soprattutto un astrofilo così valente che una montatura per telescopi si chiama ancora oggi A. B. Mount: «Quella sigla fu l’unico compenso che chiese per aver ceduto il suo brevetto». Esploratore dei mari, sino all’immersione che gli costò la vita, era un Wanderer che travalicava la geografia. Non aveva la passione del treno o dell’aereo, ma viveva il volo come porta di accesso alla dimensione dell’aria, le due ruote come utensili con cui guadagnare spazio all’orizzonte, i telescopi gli occhi per penetrare il fuoco delle stelle. Come un Prometeo astrale, Arturo aveva una mente inquieta: «D’altronde, chi viaggia più di un astronomo? Di colui, ovvero, che non si accontenta di partire per Rio de Janeiro?» Le sue rotte preferite erano percorse con la mente, il cervello, lo spirito. «Da camminatore metafisico, lo infastidivano quasi gli spostamenti letterali: il viaggio era per lui debordare dagli orari del treno, dalla fila del check in. Era puntare una galassia, oltre i confini del già visto e del già udito». Una quête che si manifestava in musica scrutando repertori insoliti, come la Sonata di Richard Strauss o quella di Kodàly, per violoncello solo. «Era come animato da un’inestinguibile insoddisfazione, nonostante l’enorme facilità, che gli avrebbe permesso di vivere il suo talento senza il minimo sforzo».

Docente del Corso di perfezionamento all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, appassionato inventore di metodologie didattiche che sperimentava prima di tutti su di sé, Arturo spinse il suo violoncello Miremont, ereditato da Pierre Fournier, sino in India e in Siberia, dove i trenta gradi sotto zero rappresentarono un’emozionante sfida con cui misurarsi. Alla ricerca di nuovi traguardi da avvistare, la sagoma del violoncello gli andava stretta; così lo angustiava la disciplina dello studio quotidiano, intesa come campo visivo totalitario, entro cui molti musicisti si intrappolano: «Per quanto la musica fosse l’attività principale della sua vita, per quanto fosse un perfezionista che dedicava ore e ore allo strumento con l’umiltà di chi non viveva di rendita naturale, era uomo troppo curioso per arrestare i suoi viaggi nelle discipline. E, a chi considera dispersivo un carattere simile», conclude con affettuosa fermezza Rodolfo, «rispondo che lo è chi fa molte cose senza far bene nessuna».

Gli occhi bruni e lucenti di Arturo Bonucci puntavano una traiettoria simultaneamente elevata e profonda. Di chi alle sette di sera, un’ora prima di un concerto a Sanremo, impugna maschera e pinne e si tuffa in acqua, poi indossa il frac e suona le Variazioni rococò di Tchaikovsky nutrite di ossigeno. L’abbraccio della musica con la vita è libero e conquistato.