A ogni ricorrenza, anno dopo anno, ci si ritrova ad ascoltare e a leggere le stesse cose. Ma che accadrebbe se queste  ricorrenze non ci fossero più? Molte festività laiche sono state oggetto di discussioni e polemiche, sia perché considerate, a torto, di parte; sia perché ritenute responsabili di un calo della produttività, vero peccato originale di qualsivoglia forma di astensione dal lavoro. Il primo maggio non fa eccezione. Se, almeno per il momento, non ne è ancora stata riproposta l’abolizione è forse per quel minimo di decenza che resta in circolazione. Eppure quest’anno più che mai conviene porsi una domanda, in questa Italia piena di lividi: che cosa c’è da festeggiare?

Ancora molto, in verità, e allora sforziamoci di vedere il bicchiere mezzo pieno. Così facendo, seppure con una messa a fuoco approssimativa, potremo convincerci di vivere in un regime pienamente democratico, dove nessuno mette in dubbio i diritti fondamentali, i sindacati continuano ad avere il loro ruolo, la scuola e la sanità sono per tutti, la giustizia svolge il proprio, imparziale compito. Ciò nonostante, anche indossando il vestito della festa, rimane difficile non accorgersi dei rischi cui sono sottoposte le nostre istituzioni democratiche. Non vedere le tante forme di diseguaglianza crescente, che attraversano in lungo e in largo il nostro Paese e mettono a repentaglio gli stessi diritti fondamentali. Si pensi al diritto all’istruzione, ad esempio, o allo stato in molti caso fuori controllo in cui versano le carceri. E il lavoro?

Il messaggio è chiaro: chi un lavoro l’ha festeggi (o, altrimenti detto, si baci i gomiti). E l’articolo 1 della Costituzione, tutti gli anni spesi per tutelare il lavoro nelle diverse forme, i sindacati, lo Statuto di Gino Giugni? Sì, certo. Ma la crisi impone un ripensamento, bisogna crescere, e tutti devono fare qualche sacrificio. Tutti? Difficilissimo considerare lo stato attuale delle relazioni industriali in Italia senza scivolare in considerazioni di stampo populista e demagogico. Possono però venirci in aiuto i fatti, la cronaca spicciola. Pensiamo ad esempio alle vertenze in corso tra Fiat e Fiom e all’esclusione di quest’ultima da molti luoghi di lavoro. Oppure proviamo a leggere con un po’ di attenzione i molti dati disponibili su occupazione, disoccupazione per genere, età e titolo di studio. Osserviamo le statistiche sui Neet. E cerchiamo di non guardare con rancore e ai fenomeni di corruzione, al clientelismo, ai differenziali retributivi tra grandi manager e lavoratori semplici, alle spese fuori controllo dei partiti. Giusto, appunto, per non scivolare nell’antipolitica.

Ma è il primo Maggio e allora conviene cogliere l’occasione e pensarci un po’ su. Tutti, a cominciare dalle imprese. Perché anche a loro converrebbe abbandonare l’atteggiamento dominante, per cui il lavoro è un bene di lusso, e dunque chi l’ottiene deve dire soltanto grazie. Un atteggiamento diffuso, a partire dai rapporti traballanti che toccano le tante forme di precariato, più o meno ufficiale, ma che poco alla volta si è esteso anche alle forme di lavoro dipendente, modificando alla radice i rapporti tra lavoratore e datore di lavoro. Minando il senso di appartenenza all’azienda, e con esso la partecipazione al destino stesso dell’iniziativa d’impresa. Ecco, anche a questo dovrebbe servire festeggiare il primo maggio, al di là delle polemiche consuete sull’apertura dei negozi. Perché c’è stato un tempo in cui, tra efficienza e consenso, si poteva anche trovare la quadratura del cerchio, nel pieno rispetto della dignità del lavoro e anzi ricavando da tale rispetto un beneficio per l’impresa stessa. Non basta fermarsi ai livelli retributivi (seppure i nostri restino tra i più bassi d’Europa), perché non tutto è monetizzabile. E non tutti i guai del lavoro in Italia oggi possono essere ricondotti alla crisi grande e terribile.

Scriveva Adriano Olivetti, in quell’Italia che ai giornali di tanto in tanto piace citare come quella dei bei tempi andati: «A volte, quando lavoro fino a tardi vedo le luci degli operai che fanno il doppio turno, degli impiegati, degli ingegneri, e mi viene voglia di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza». Oggi, mentre il Parlamento discute modifiche importanti alla normativa sul lavoro, c’è ancora qualcuno disposto a leggere queste parole al di là delle utopie?