Si può discutere di riforma elettorale senza che diventi una ordalia, senza l’ebbrezza di tuffarsi nella solita marea di luoghi comuni? A vedere come sono andate sino a oggi le cose, verrebbe da dubitarne, ma vogliamo continuare a credere che qualche angolo per ragionare sia rimasto anche nel tormentato quadro della politica italiana attuale.

La prima asserzione da sottomettere a verifica è la presunta capacità salvifica di qualsiasi meccanismo fondato sulla capacità di portarci al, o di imporre il, bipartitismo.

Chi fa lo storico di mestiere non può fare a meno di ricordare due banalità: la prima è che dal 1870 o giù di lì gli intellettuali italiani che si occupano di politica non fanno altro che lamentarsi prima perché non eravamo inglesi, poi perché non eravamo americani; la seconda è che forme più o meno efficaci di sistemi elettorali non proporzionalisti hanno dominato 100 su 150 anni della nostra storia unitaria. Che quelli siano stati sempre e comunque molto migliori di questi è tutto da dimostrare.

Comunque non è questo il punto da discutere oggi. Sarebbe da convenire in premessa che non esistono di per sé sistemi elettorali buoni e sistemi elettorali cattivi: è l’uso che di un certo sistema si fa per ragioni culturali e di contesto che lo rende adatto o meno a produrre un consenso politico di base.

Capisco che l’affermazione sconvolge coloro che si sono inventati che il sistema elettorale deve produrre la “governabilità”, senza capire che essa è figlia di un sistema di accettabile equilibrio politico che permette di raggiungere condizioni di consenso politico accettabile. Senza di esse nessun governo, per quanto gli si possa conferire una maggioranza parlamentare acconcia, riesce davvero a “decidere”. Basta riflettere su quel che è accaduto in Italia negli ultimi trent’anni: le maggioranze erano “ballerine” non perché le urne non consentissero a priori l’investitura di un governo, ma perché nel Paese era costantemente all’opera una inarrestabile voglia di distruggere quel che si stava facendo, visto che, inevitabilmente, toccava lo “status quo” di questa o quella corporazione, e metteva in gioco questo o quel pregiudizio di un settore della classe politica.

Un sistema con alternanza bipolare come la immaginano quelli che la propagandano presuppone una cultura politica che in Italia al momento manca del tutto, a cominciare da dentro le schiere in cui si collocano questi signori. Parliamo della cultura politica per cui, in definitiva, chi perde è disposto a riconoscere legittimato a governare chi vince e chi vince non pensa a fare l’asso pigliatutto in ogni settore della vita pubblica, e accetta comunque il principio costituzionale del governare attraverso il confronto.

Sappiamo benissimo cosa è stata l’esperienza “bipolare” della cosiddetta Seconda Repubblica. Chi perdeva rifiutava di riconoscere il vincitore, in cui vedeva sempre tutti i vizi possibili che lo rendevano illegittimo quando non semplicemente una incarnazione del diavolo. Chi vinceva poi, non pensava assolutamente ad accreditarsi verso il Paese in generale, ma si prendeva tutte le “spoglie” possibili, senza alcun rispetto per la qualità da mettere nell’operazione. Sotto questo profilo destra e sinistra sono state assolutamente eguali per qualsiasi osservatore disincantato: chi in entrambe le parti ha provato a collocarsi fuori da questi giochi ha fatto una magra fine.

In queste condizioni sarebbe davvero così terribile che si ritornasse a un sistema “proporzionale” che costringesse le forze politiche a rendersi “misurabili” per quello che sono, ad affrontare un rischio costante di delegittimazione parlamentare, a scegliersi personale politico all’altezza di un confronto continuo, sulle decisioni da prendere e non sulle battute da esibire nei talk show?

Sono ben consapevole dei rischi che si nascondono nel ritorno a un sistema di confronto dialettico fra le molte anime che dividono in questo momento il Paese. Va benissimo inserire correttivi per evitare l’esplodere numerico delle presenze corporative comunque mascherate, ben vengano le technicalities per costringere una classe politica in disfacimento a contenere i suoi appetiti, ma accettiamo che siano ben più perniciose che le manipolazioni esasperate per produrre quel che non c’è, cioè una politica decentemente divisa lungo due grandi filoni principali. A cominciare dai premi di maggioranza per finire con il mito inutile che siano gli elettori a scegliersi sulla scheda il primo ministro, sono solo numeri da prestigiatore che illudono, ma non fanno magie.

Il vero nodo che si dovrebbe sciogliere in parallelo con il problema della riforma elettorale è la revisione del modo di elezione del presidente della Repubblica. Non per andare verso un semipresidenzialismo che in questo Paese non ha, come l’alternarsi bipolare, basi culturali, ma per produrre un nuovo tipo di più larga legittimazione a una magistratura che è andata diventando il necessario vertice arbitrale di un sistema politico in crisi profonda di identità.

Sembra non pensarci nessuno, ma sarebbe una priorità, avvicinandosi la scadenza del mandato del presidente Napolitano, che lascia una eredità affascinante, ma anche di non semplice gestione.