Lo spazio è il problema principale di tutti gli archivi, che siano amministrativi, storici, ma anche privati. Tribunali, biblioteche e musei rappresentano tre casi particolari, ma non fanno eccezione. Uno spazio sempre più prezioso: man mano che si ricevono nuovi materiali da incamerare è necessario fare uno spoglio dell'esistente, destinare ad altri depositi o eliminare. Scegliere che cosa eliminare non è semplice. Lo si fa secondo determinate regole, quasi sempre legate ad aspetti temporali e relative al rilievo del materiale stoccato. Non sempre però queste due categorie permettono di fare uno spoglio indolore, né per i posteri né per i contemporanei.

Secondo la normativa in vigore, e con maggiore sollecitudine dopo un'ispezione ministeriale avvenuta nel 2008, il Tribunale di Bologna sta provvedendo all'eliminazione dei corpi di reato stivati negli ultimi trenta, quarant'anni. Decenni segnati da furti comuni e rapine a mano armata, ma anche dalla tossicodipendenza e da delitti terribili, eppure tristemente ordinari. Un periodo che si apre con lo scoppio dell'Italicus a San Benedetto Val di Sambro. Poco dopo l'anno si fa nome e con il '77 arriva l'omicidio Lorusso. Gli anni successivi vengono segnati dalla cesura netta della strage alla stazione, poi passano per il delitto Alinovi (e la cosiddetta serie dei delitti del Dams) e quindi attraversano una galleria, la Grande galleria dell'Appennino, in cui ancora un treno, quel treno di Natale che era il rapido 904, esplode. Anni che finiscono anche per macchiarsi delle azioni della Uno bianca dei fratelli Savi, con tutto quel portato di riflessioni sulle “mele marce” purtroppo ancora oggi così attuale.

Quando nacque il Museo per la memoria di Ustica, una delle principali motivazioni dell'Associazione dei familiari delle vittime era proprio la possibile eliminazione, prima o poi, del “corpo del reato” che in quel caso coincideva con l'unico testimone, muto, della tragedia. Il relitto forse avrà detto tutto quello che poteva dire per il processo, per i processi, ma non per la storia, nel cui ambito non è ancora stato detto nulla. E anche la memoria, che non fosse ricordo privato ma riflessione collettiva, difettava. E così il corpo del reato è stato esibito com'era: composto come uno straordinario – nel vero senso del termine: fuori dal consueto, non previsto – materiale d'archivio, in cui ogni frammento è catalogato, schedato e segnalato da un'etichetta. Con lui, tanti minuti corpi del reato, quegli oggetti personali – abiti, sandali, libri, creme, maschere e boccagli – dei viaggiatori, delle vittime, che testimoniano e raccontano i corpi dei loro possessori.

Un corpo di cui sono rimasti solo un paio di occhiali e una camicia è quello di Pier Paolo Pasolini: i reperti di quel reato sono stati trasferiti qualche anno fa al Museo criminologico di Roma insieme al suo tesserino da giornalista, un libro di Marx, le tavole di legno dell'idroscalo di Ostia (probabili armi del delitto), e un golf verde, ritrovato nell'auto, che non apparteneva né a Pasolini né a Pelosi. Su questi oggetti ancora si indaga, e solo pochi mesi fa sono stati ritrovati residui di un Dna che non appartiene, neppure lui, a nessuna delle due persone presenti sulla scena del delitto, la vittima e l'assassino finora indicato come tale.

Anche se da un punto di vista processuale certe vicende di trenta, quarant’anni fa (o anche più) sono considerate concluse, in realtà resta un alone di dubbio e mistero – e il caso Alinovi è certamente uno di questi, essendo uno di quei casi italiani che ogni qualche tempo viene raccontato nei programmi di seconda serata e tenuto vivo nella rosa delle faccende poco convincenti. È uno dei nostri, potremmo dire in gergo televisivo, cold cases. Ma al di là della giustizia c'è la storia, che guarda agli eventi – quei fatti che emergono, si distinguono – e che ha bisogno di tempo per farsi, e di solito inizia a lavorare quando un fatto esce dalla cronaca. Da molti indizi, sembra che trent'anni siano il tempo necessario perché una nuova memoria inizi a farsi riflessione profonda (forse perché è il tempo che i bambini, nati dopo o testimoni troppo giovani, ci mettono per diventare adulti), mentre la storia ha bisogno di più tempo. E ha bisogno di documenti. Di fondi archivistici, di reperti. Non cerca il colpevole, ma cerca il contesto in cui questo ha agito, si è formato, è cresciuto. Perché cerca di ricostruire per capire, non per giudicare.

Ora, la notizia della distruzione dei corpi del reato bolognesi ci colpisce, ci meraviglia, ci indigna: eppure sappiamo bene che non possiamo tenere tutto, non possiamo costruire un museo della memoria di ogni cosa. Eppure facciamo fatica a non considerare quei reperti come delle reliquie. Corpi di reato che non sono altro che tracce di corpi sacri perché appartenenti a vittime di eventi che hanno segnato la nostra società, la società di un dopoguerra sazio, ricostruito, ma non per questo sereno e pacificato. Italo Calvino ne La poubelle agréée racconta come sia lieve il gesto di buttare via la spazzatura: assunto in sé il contenuto, la sostanza profonda e intima di una cosa, è possibile, anzi, necessario gettarne via la buccia, la crisalide, il limone spremuto. È una sorta di rito di purificazione.

Noi non possiamo ancora disfarci delle bucce perché non abbiamo mangiato, assunto, digerito, il contenuto di quei frutti terribili che sono stati gli ultimi decenni della nostra storia. Costruiamo musei della città, ma i segni di cosa è successo, cosa è passato attraverso la nostra città, sono anche – e soprattutto – per le vie, le piazze, le case, le porte, i muri. Sono su un muro di via Mascarella pieno di fori di proiettile, sono in uno squarcio su una parete e un brandello di vecchia pavimentazione nella sala d'aspetto della stazione: segni di cui sempre meno persone conoscono il senso. E sono nei depositi del tribunale.

Almeno, prima di mandare tutto al macero, potremmo chiedere a qualcuno, qualche artista, regista, fotografo, scrittore, qualcuno che sappia essere sensibile agli oggetti e al loro portato, di rileggerli per noi, di assumerne la sostanza e dispiegarne un'elaborazione. Potremmo chiedergli di attraversare l'archivio, sopportare l'inquietudine e il dubbio, addirittura l'orrore e il panico, e guardare quello che c'è. Poi terremmo questa nuova creazione e potremmo anche gettare l'oggetto, rendendoci conto che in fondo non è altro che un abito, un paio di occhiali, un pezzo di asfalto, una scarpa.

Solo se sapremo elaborarne il significato, l'essenza, allora il corpo del reato – l'oggetto straordinario – potrà tornare a essere un oggetto comune.