Il tunnel dell’alta velocità esce muto, tra binari in attività e abbandonati. Dal sovrappasso si leggono tracce stratificate che la ferrovia Torino-Milano ha abbandonato in più di centocinquant’anni di storia: muretti, terrapieni e tronchi di legno sovrapposti a segnare un limite che non esiste più. Due chilometri oltre, le traversine abbandonate di una trincea ferroviaria restituiscono ancora l’odore del vapore.

L’ufficio postale dove si ritirano i pacchi non consegnati disegna, su un lato del sedime abbandonato, un trapezio protetto da un’inferriata: una parcella fondiaria isolata in un vuoto urbano, reso quasi drammatico dall’abbandono che lo circonda.

Il libro delle memorie. Il mondo che si apre davanti a chi cammina attraverso la città svela l’importanza dello sguardo dello straniero. Il supir, un dolce il cui nome storpia e nobilita l’italiano sospiro, segnala la vitalità di una piccola comunità urbana, in un borgo quasi preservato dalla crescita quantitativa della periferia torinese. Pochi passi più in là una piazza senza nome racchiude invece un paradosso giuridico contemporaneo. Due strade conservano sui due lati della piazza il loro nome, rendendo introvabile sulla carta quel luogo. Al centro invece la norma, quasi per paradosso, diventa un recinto chiuso, carcerario. Bimbi e mamme giocano dentro un’inferriata, su scivoli e dondoli, costruiti sul rischio di cadere. Lo sguardo di chi è straniero consente di rendere espliciti segni e tracce che la consuetudine o la professione offusca o codifica, non deve portare avanti un gioco di ruoli e consente ai protagonisti di uscire dal proprio.
Attorno a un tavolo, Paola Viganò, urbanista milanese, rompe gli indugi e pone il problema «non c’è un immaginario in questo progetto» [1]. Lo straniero non conosce le regole, le convenzioni, i conflitti attorno a quel tavolo. Consente ad esempio a un ingegnere, di uscire dal suo dovere di costruire macchine sterili e di porsi invece in una logica progettuale. Obbliga chi ha costruito la sua legittimità sull’osservazione delle norme a metterne in discussione la finalità. Mette gli architetti che hanno iniziato a progettare frammenti di cambiamento a misurarsi con le morfologie che creano o dimenticano.
L’immaginario di un luogo può liberarsi, attraverso lo sguardo di chi è straniero, dai troppi retini che rendono le carte urbanistiche ormai illeggibili se non per rendere evidenti le stratificazioni di interessi che esistono sullo spazio.

La barriera operaia. Forse nessun territorio meglio si presta a questa esperienza di sguardi incrociati. La Barriera di Milano è una parte di Torino che non ha conosciuto trasformazioni dopo la stagione delle 167, un margine di città che ha una storia popolata di protagonisti anonimi, di tessuti e non di emergenze monumentali, in cui l’identità dei luoghi è, non senza paradossi, quella di un feeltering urbano iniziato negli anni Ottanta dell’Ottocento. È una storia che può scomparire senza che gli oggetti siano in grado di resistere e i soggetti di contrapporre la loro storia a quella che si vorrà scrivere. È la città ideale della sostituzione: di funzioni e popolazione. Ma è anche il luogo ideale delle imperfezioni del mercato: il centro della città si raggiunge a piedi in pochi minuti o, se lo sguardo si allarga, la zona, come si chiamava nel linguaggio sindacale degli anni Settanta, connette tre fiumi. Eppure il mercato ha reso, senza alcuna razionalità economica, ancor più marginali questi territori urbani.

L’uso sociale della rendita. È una strada, quella intrapresa dall’amministrazione torinese, che segna tempi e culture diverse del Novecento, dal liberalismo delle regole e del profitto misurato sulla ricchezza che produce, alla socialdemocrazia tedesca, al laburismo inglese. Un’infrastruttura, una linea di metropolitana in progetto in questa periferia, in questo caso, produce una plusvalenza che si vuole far diventare incentivo per non subire il cambiamento: senza ridursi a scambiare quantità, edificazione con standard, edificazione con un verde confinato in un parco. Ad entrare in discussione, se le rendite di posizione rientrano in un gioco più complesso dello scambio quantitativo, non è solo la redistribuzione delle opportunità, ma anche la possibilità di restituire al progetto la sua valenza di messa in relazione di spazi e usi non precostituiti nei loro confini e nelle loro forme, soprattutto di provare a ridare un significato meno… scontato e banale a ciò che significa pubblico nella città contemporanea. Svanita l’illusione che la rendita si potesse redistribuire attraverso il diritto o di una politica in grado di ordinare economia e società nello spazio, oggi la questione dello spazio pubblico si gioca sulla capacità di un’amministrazione di conservare la mixité di tempi, funzioni e usi degli spazi: si gioca tutta sulla qualità del progetto urbano.

Un protagonista anch’esso straniero. L’Urban Center di Torino in questo gioco delle parti ha un ruolo che non nasce solo dalla sua costituzione: il convergere di un comune e di una compagnia bancaria sul possibile valore di un’esperienza terza. La terzietà ha una storia non proprio felice nel Novecento: dal terzomondismo alla terza via tra democrazia e totalitarismi, ha spesso scontato utopie e fallimenti. Né esso ha un modello consolidato di riferimento. L’Urban Center come forma pubblica di controllo della qualità urbana, ha finito, nella sua migliore esperienza, Berlino, di produrre un autoritarismo illuminato, quello di Hans Stimann. L’Urban Center come forma partecipata anche nelle azioni che ne definiscono lo stato giuridico, come in quello di San Francisco, gode della tradizione della public enquiry di tradizione anglossassone, ma agisce soprattutto come garanzia di una trasparenza della discussione, non entra nella genesi dello spazio e nella possibile qualità urbana.
Nell’Italia della crisi dell’urbanistica quantitativa ma anche della separazione tra piano e progetto, queste due soluzioni appaiono parziali. Forse proprio la separazione tra piano e progetto, ha aperto, all’inizio degli anni Ottanta la strada a una stagione di formalismi e di casualità, soprattutto di legittimazioni senza verifica di protagonisti singoli (e o portatori di interessi di parte). Di fronte al mutamento sostanziale di ciò che si riconosce come pubblico, non ha saputo accompagnare la continua revisione degli interessi e dei valori che costituiscono una comunità.
L’Urban Center di Torino nasce ancora sulla lama di due rasoi molto affilati. Non ricavando la propria legittimità dalla carta bollata né unicamente dalla forza dei suoi fondatori, deve trarre la propria autorità dalla forza di rimanere straniero.

Il dialogo non basta. Le culture costruite per competenze e su norme e la negoziazione fatta solo dai portatori di interesse, lascia del tutto scoperto l’esito, che è il risultato più permanente del processo: l’architettura e la morfologia urbana. Restituire una dimensione processuale e non autoritativa al costruire, costruire le condizioni di un dialogo tra gli attori è scelta necessaria, ma porta con sé tutti i rischi della sostituzione di un’egemonia (normativa o di valori) con una pratica, il cui fine non è dato e che può esaurirsi nell’esaltazione di un empirismo fine a se stesso. Nascosta, ma neanche tanto, dietro questo sipario che è necessario sollevare, rimane la difficile questione della qualità urbana. Quale qualità? Nessun termine forse ha visto esprimersi tante «tirannie di valori» come la presunzione di rappresentare la qualità urbana, incrociando, lungo il Novecento, diversi autoritarismi, molte autoreferenzialità non solo degli architetti, alcuni populismi.
Può venire in soccorso allora, non appaia troppo strano, uno storico dell’antichità Pierre Hadot. L’esercizio che Urban Center è chiamato a fare si avvicina a un esercizio spirituale. La lista degli esercizi degli stoici bene rappresenta, ad esempio, tappe e percorso del lavoro di un Urban Center: la zetesis (la ricerca), la skepsis (l’esame approfondito), l’akroasis (l’ascolto), la prosoché (l’attenzione), l’enkrateia, (l’indifferenza alle cose indifferenti). Un percorso che comporta poi esercizi pratici destinati a creare abitudini, senza che queste configurino atti dovuti e tanto meno formali.
L’obbiettivo di questo percorso che deve costruire le sue pratiche, renderle autorevoli, senza renderle autoritarie, creare una consuetudine e non una procedura, è conservare la natura plurale della qualità, il fatto che solo se questa è il risultato di tanti protagonisti, è davvero qualità.
L’autorità l’Urban Center non la avrà mai una volta per tutte e non in tutti i casi riuscirà ad esprimerla, perché, come racconta un frammento del Talmud, la ricostruzione del forno di Aknai, il riconoscimento dell’autorità è sempre in bilico tra la chiamata in causa di un potere e il riconoscimento reciproco del potere tra coloro che lo detengono.
E i rischi che un Urban Center corre sono tanti, perché ogni portatore di interesse può sottrarsi al gioco e cercare di delegittimare il tavolo, rivendicando la propria autonomia (professionale, imprenditoriale, politica, persino culturale). È per questo che non è sufficiente l’accompagnamento del processo progettuale.

L’opinione pubblica e la democrazia urbana. Restituire trasparenza a un processo non è sempre garanzia sul suo buon esito, soprattutto se non si è in regime di public enquire. Anche nella costruzione dell’opinione pubblica sulla città si scontrano attori e portatori di interessi. Le culture che producono tecniche e norme (si pensi solo a quanto sta avvenendo sulla sostenibilità), i professionisti e le loro organizzazioni, la pubblicistica, accademica, ma soprattutto quotidiana, che ha trovato nella costruzione della città terreno di danze macabre, producono immaginari e non importa se questi sono o meno falsabili, seguendo una procedura di prova. Ciascuno svolge un proprio ruolo e non è sufficiente a un Urban Center, come dimostra l’esperienza dell’Urban Center di New York, fare networking, esercitare anche in questo caso una funzione che pure è essenziale, quella di far convergere nel confronto su un’idea di città coloro che esprimono idee differenti.
Per questo l’anno scorso Urban Center ha costruito una mostra come un dispositivo non rituale. Dovendo restituire una biografia di Torino, ha costruito un percorso attraverso cui, scienziati sociali differenti e portatori di diverse idee di città, si confrontassero, tra di loro e con chi viveva quei luoghi, per restituire i giochi di scala con cui si percepisce e si rappresenta una città.
La mostra è stata un inaspettato successo, perché offriva al visitatore scale diverse per entrare nella biografia di una città: ogni scatola racchiudeva insieme un tema e una scala di lettura, ma solo i giochi di scale nel loro complesso, restituivano una complessità, finalmente non caotica.
Senza un lavoro che non ha ancora un nome, perché non è comunicazione e non è solo partecipazione, ma che potrebbe essere definito come imparare a dialogare, non si favorisce la qualità urbana: quella che, non a caso, la cultura della Georgian London settecentesca chiamava Improvement. Iniziando in quest’esercizio d’apprendre à lire da una struttura, Urban Center che non è depositaria di valori né assoluti né esclusivi. Un altro dei principi su ci si può costruire una qualità urbana è proprio la rinuncia a una qualsivoglia tirannia dei valori.

Il dialogo e l’opinione pubblica. Urban Center ha lavorato, nei tre anni della sua vita, presupponendo due cose: che oggi quel che è pubblico e quel che è terzo non sono valori dati, da difendere e tanto meno da applicare. Ma che entrambi sono valori da costruire, seguendo un percorso che ha molte memorie nella cultura politica torinese: quella cristiana di Felice Balbo, quella comunitaria di Adriano Olivetti, quella azionista di Norberto Bobbio, quella consiliare del sindacato torinese. Memorie quasi tutte minoritarie, ma che si sono mosse sempre come ricerca di una rappresentatività non desunta da una carta dei valori, ma dalla ricerca di riconoscere valori e bisogni che tengono unite comunità, sapendo che entrambi riescono ad affermarsi solo attraverso una pratica della politica come tolleranza di opinioni necessariamente diverse, come intransigenza del modo, non dei contenuti, di esercitare un’autorità. Non a caso il terreno più difficile su cui si svolge l’esercizio spirituale, se mi è consentito abusare della metafora, di Urban Center è quello di cosa sia spazio pubblico in una città monopolio di valori che si vogliono esclusivi (dalla sicurezza alla valorizzazione economica, alla forma architettonica).

Ritornando in Barriera di Milano. Nell’esperienza di un esercizio spirituale intorno a un tavolo, due osservazioni hanno ulteriormente consentito di capire quanto sia importante, in queste pratiche che si vorrebbe diventassero abitudini, inserire comunque lo straniero. Joao Nunez, paesaggista portoghese, ha suggerito l’importanza di un recinto, nello spazio di questa barriera operaia, che è forse l’unico che unisce culture cattoliche e modernità: il recinto del cimitero. In una zona che in realtà ha rendite di posizione privilegiate – collega tre fiumi, si pone a un passo dai giardini reali e dalla Mole Antonelliana, offre un panorama sulle colline e sulle Alpi quasi a trecentosessanta gradi – quel recinto costruisce un limite quasi invalicabile alla possibilità di scambiare solo edificazione con un verde indistinto, ma pone anche, in maniera paradigmatica, il nodo di ogni progettazione urbana, il superamento dei recinti.
La città si realizza solo se supera i recinti, e quello del luogo della memoria e della morte, rappresenta una sfida che rende impraticabile la logica del baratto tra artificio e natura.
Anche perché si pone, zona a oggi nella società e nella cultura italiana quasi sinonimo di extraterritorialità, tra un parco fluviale e un autentico vuoto urbano.
Vuoto urbano è quasi sempre uno spazio chiuso da un muro che non racchiude più le attività che doveva difendere da regole e norme della vita civile. Invece a fianco di un cimitero si stende un’area davvero vuota, area di binari che il tempo ha coperto e quasi annullato, sfida quasi provocatoria a una progettualità che non può essere che moderna e non può essere solo formale. Come ha colto subito il terzo straniero, Francesco Garofalo, architetto romano, su quell’area si gioca una partita che non può essere compromessa da scelte architettoniche precostituite: una progettazione morfologica è la sola via di uscita: con tutti i rischi di dover costruire, non interpretare un pezzo di città. Quella che si deve provar a realizzare è un’architettura senza il paracadute di tracce e memorie, una progettualità che potrebbe ricadere nella riproposta di paradigmi fondati sul primato di una tecnica: questa volta ancor più ideologica, come quella che vorrebbe codificare la sostenibilità.

Dare un nome alle cose. Forse un’infrastruttura, la possibile socializzazione delle rendite, una parte di città all’apparenza anonima, un insieme di vantaggi rari, la tradizione di un luogo come felteering sociale, continuo sino a oggi, possono riavvicinare due idee, certo profondamente riformate: quelle di piano e progetto.
I grandi piani del Novecento hanno sempre saputo creare insieme immaginari e capitale sociale interessato a tradurli in pratiche: la Francoforte di May, l’Amsterdam di Van Estereen, la Stoccolma di Paul Hedquist, in realtà non sono opere autoriali, sono, nelle parti che si sono compiute, incontro di progettualità sociali e di intelligenze capaci di interpretarli, quasi tutte oggi irriconoscibili. Eppure quei luoghi hanno una memoria e un nome: e quella memoria e quel nome hanno filtrato la conoscenza che noi abbiamo di quei piani e di quelle città. Un libro di più di vent’anni fa, proponeva a Torino la scommessa di reinventarsi un nome che non fosse sabauda o industriale. Arnaldo Bagnasco lo proponeva a una Torino davvero in crisi di identità.
L’esperienza di un triennio consente a Urban Center di proporre alcuni nodi da intrecciare per continuare quella ricerca di un nome. Si può agire nell’interesse pubblico, definendolo in progress? Si può procedere come struttura terza, senza mai entrare nelle competenze di chi è chiamato a garantire la definizione delle regole agli attori e la soluzione architettonica ai professionisti? Si può lavorare insieme sul dialogo e sul portare avanti un’idea di qualità urbana come valore sociale aggiunto, senza farsi «tiranni» di un valore, anche se di una società di eguali? Si può lavorare a ricreare le condizioni perché la qualità urbana torni ad essere, anche nell’immaginario dei cittadini, l’esito di tanti attori, sottratto al personalismo e all’autoritarismo che comunque l’enfasi sull’autore o sull’attore politico, comunque portano con sé? È possibile non fermarsi al processo, ma creare le condizioni perché nominare un progetto urbano sia l’esito di una tolleranza vigile e di un esercizio complesso di accompagnamento?
La qualità urbana è uno dei rari terreni dove oggi si può sfidare un’idea semplificata della governance e al contempo un’idea autoritaria dei valori che quella governance dovrebbe garantire: proprio perché la qualità urbana esiste se è il prodotto, fragile e sempre in gioco, della cultura degli attori. Ancora una volta ci può venire in soccorso Pierre Hadot. «Ogni logos è un sistema, ma l’insieme dei logoi non formano un sistema»: ogni progetto è una messa in relazione di valori, ma non necessariamente l’insieme dei progetti forma un sistema di significati. La difficoltà, ma forse anche l’utilità di un Urban Center, con tutti i rischi di una missione che si vuole terza, nasce proprio da questa condizione di un governo della complessità urbana, che non si rassegna a elevare la stessa complessità a legittimazione di forme di cinismo prima intellettuale che economico.


n o t a
[1] Oltre ai professori Paola Viganò (Iuav di Venezia), Francesco Garofalo (Architettura di Pescara), Jao Nunes (…di Lisbona), e alla struttura di Urvan Center, erano presenti alla riunione del 23 aprile 2009, Mario Viano, Assessore all’Urbanistica del Comune di Torino e i funzionari della Direzione dell’Assessorato e dei settori Strumentazione urbanistica, Progetti di riassetto urbano, Trasformazioni convenzionate, Edilizia privata dello stesso assessorato e dell’assessorato Infrastrutture e mobilità, i funzionari della Direzione e dei Fondi strutturali. Erano altresì presenti il presidente della Circoscrizione Barriera di Milano, Gigi Malaroda, La Finpiemonte, e i progettisti delle prime aree private coinvolte dal tracciato della linea 2 della metropolitana, nella sua parte conclusiva, dal Borgo Vanchiglia a piazza Rebaudengo, oggetto della variante 200, in discussione nel Consiglio comunale di Torino: tra gli altri Massimo Burroni, Ubaldo Bossolono, Benedetto Camerana. La riunione costituisce il primo atto di un processo di accompagnamento e discussione delle implicazioni delle trasformazioni collegate alla variante urbanistica.

[Carlo Olmo è il direttore dell’Urban Center di Torino. Professore di Storia dell’architettura contemporanea alla I Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, della quale è stato preside dal 2000 al 2007, ha insegnato in numerose università italiane e straniere].