Quando, nel 1945, si trattò di avviare tra enormi difficoltà la ricostruzione del Paese, fu un gruppo di uomini a garantire allo Stato l’expertise necessaria per uscire dalle secche della sconfitta bellica. Donato Menichella primo fra tutti, e poi Pasquale Saraceno, un altro giovane di scuola-Iri; e più tardi Guido Carli, che proprio all’Iri si era fatto le ossa a ridosso della guerra.

L’interazione tra alcuni protagonisti di primo piano della politica del dopoguerra (in modo diverso Luigi Einaudi, Ugo La Malfa e Ezio Vanoni) e questo bacino di competenze tipicamente cresciute nell’alveo dello Stato e dei suoi enti fu decisivo per avviare il miracolo economico e con esso il secondo grande balzo in avanti (il primo era stato quello di inizio Novecento) dell’economia italiana.

Si potrebbe continuare. Furono le élite estranee alla politica, tratte da quella vera e propria pépinière de grand-commis che è stata nei decenni la Banca d’Italia, a garantire il risanamento degli anni Novanta (il governo Ciampi) e l’adesione all’area dell’euro (il governo Prodi con Ciampi in posizione chiave). È ancora a quel mondo (sebbene Mario Monti venga piuttosto dall’Università Bocconi) che si attinge oggi, quando nuovamente, una crisi gravissima attanaglia il Paese.

Si potrebbe allora sostenere che nella storia d’Italia, dall’Ottocento a oggi, corre una specie di filo rosso virtuoso, rappresentato da queste élite, che potremmo forse definire come “i migliori”? Élite – si badi – estranee al modello di formazione delle classi dirigenti (sia economiche sia politiche), fortemente collegate per più fili, innanzitutto di formazione culturale, alle cerchie internazionali più prestigiose dell’economia e della finanza (con la testa in Europa, più che in Italia), dotate di una elevata sensibilità istituzionale di antico stampo risorgimentale, interpreti (alla fine) di un’idea del Paese assai distante da quella che i grandi partiti di massa prima, la complessa cultura dei media poi, ha imposto nell’opinione (e nell’immaginario collettivo) della maggioranza degli italiani?

Italiani speciali, insomma; stranieri in patria; aristocrazie distaccate dal consenso; grandi borghesi en réserve de la République; padri nobili di una figliolanza turbolenta e irriconoscente?
Irriconoscente. Già, perché se si guarda al dopo, all’esito di questi repentini e spesso drammatici salvataggi, non può non balzare agli occhi un paradosso: che sempre, immancabilmente, nel dopo il vecchio soffoca il nuovo, la mediocrità prevale sulla virtù, la continuità ricuce gli strappi delle provvidenziali rotture. Accade sul piano della moralità pubblica, innanzitutto, dopo i soprassalti “giacobini” cui queste politiche danno espressione; ma accade anche su quelli della politica e dell’economia. Una legge inesorabile, negativa, sembra ogni volta riportare tutto al punto di partenza. Rendere tutto vano.

Così al Giolitti promotore della Banca d’Italia succede un cattivo Crispi (sarà il Crispi dell’avventura coloniale e della repressione dei fasci siciliani); al colpo di reni del dopo-Caporetto l’ubriacatura retorica dannunziana e poi il Ventennio fascista; alla sagace ingegneria istituzionale di Alberto Beneduce il declino dell’Iri e dei grandi enti di Stato nell’età della Repubblica; al Ciampi dell’euro la pazzia collettiva del berlusconismo e il nuovo crollo del Paese.

C’è una spiegazione di queste altalene? Perché la palla, rimessa faticosamente in gioco, poi scivola inesorabilmente fuori campo? È già scritta nel nostro destino nazionale che l’iniziativa dei “migliori” debba necessariamente concludere in una storia di vinti?
In parte sì, e per comprenderlo a fondo bisognerebbe scavare sui dati strutturali dei 150 anni della nostra storia recente: sulle debolezze originarie della rivoluzione borghese in Italia, sulle contraddizioni profonde di uno sviluppo che pure si è espresso in tempi e modalità che hanno del miracoloso, ma proprio per questo è stato pagato con grandi e imbarazzanti compromessi; sulle ambiguità, anche, del nostro stesso processo di civilizzazione, della formazione in Italia di una borghesia nazionale, della distribuzione delle classi sociali, delle nostre fratture storiche, a cominciare da quella Nord-Sud. Manchiamo poi, a confronto coi grandi Paesi europei, di solidità nelle strutture portanti, di efficaci regole nella selezione dei “migliori”, di laboratori capaci di illuminare le classi di governo (i think tank degli Stati Uniti, l’Ena della Francia repubblicana, figlia a sua volta della tradizione plurisecolare delle grandes écoles; la tradizione secolare del Civil Service inglese); e di identità nazionali forti, anche, in grado, nei momenti di crisi, di funzionare da collante della società civile.

Insomma, un grande lavoro sta di fronte ai “migliori”, se davvero la svolta di questi giorni li riporterà nella sala macchine: non soltanto sul terreno della lotta al declino economico, ma su quello – più vasto e ancora più impegnativo – della ricostruzione o forse della edificazione ex novo dei “fondamentali” del Paese. Ci vorrà tempo, e pazienza, e coraggio, e soprattutto spirito di sacrificio.
Resta, alla fine, una domanda, però. Come si fa a trasformare queste intermittenti riserve virtuose in fattori permanenti e strutturali dell’impianto istituzionale, in garanzia di continuità e di lunga durata anche al di là dei fisiologici mutamenti dei governi, in nervature essenziali dello Stato e della rete delle istituzioni nel loro complesso. Puntare sulle grandi scuole? Correggendo il tipico vizio italiano per il quale ogni corpo o amministrazione o ente pubblico crea autonomamente il suo percorso formativo ma nessuno pensa davvero a formare l’élite nazionale? Oppure lavorando piuttosto sui contenuti, intrecciando di più le culture del pubblico e i saperi della società, anche attraverso una radicale revisione del modello di alta formazione formalmente garantito dalle università, ripensando lauree, curricula, formazione post-laurea?

Certo, il problema esiste, ed è urgentissimo. Si tratta, in una parola, di formare la classe dirigente del Paese, indirizzandone consapevolmente le linee evolutive. Compito da far tremare le vene ai polsi, certo, ma in definitiva vero progetto vincente, almeno se si vuole uscire dall’altalena delle crisi.