Dipenderà almeno in parte dalla pausa estiva. Ma il termometro politico ed economico del Paese sembra impazzito, dominato com’è da una caciara fastidiosa e ripetitiva. La crisi che, ci era stato spiegato, non ci aveva toccati troppo seriamente grazie ai presunti fondamentali della nostra economia, all’improvviso si è rilevata in tutta la sua gravità. Colpa dell’andamento generale e dei difetti che sempre più difficilmente si riescono a nascondere dei sistemi di capitalismo. Colpa delle agenzie di rating che fanno il brutto e il cattivo tempo non senza conflitti di interesse. E, con loro, colpa degli speculatori brutti e cattivi, che però ci sono sempre stati. Colpa, ancora, della reale incapacità politica europea e delle diverse visioni tra importanti Paesi membri. Colpa, quindi, di tutti e di nessuno. Ma quando le responsabilità sono percepite come diffuse diventa difficile se non impossibile fare chiarezza, proprio mentre invece ciò sarebbe indispensabile e prioritario. Distinguere tra la melassa populista e demagogica che ci sovrasta e nella quale si tenta di navigare a vista e le distinzioni utili a comprendere, almeno un poco, quali strade, o quali vicoletti, sia possibile intraprendere per formulare un progetto politico per il Paese. Di questo non c’è traccia, nel caldo d’agosto affrontato stoicamente dalla segreteria generale del sindacato più grande, Susanna Camusso, nella Roma bollente di metà mattina. Ma anche da tutti coloro che hanno giudicato necessario, con sofferenza, rientrare anticipatamente dalle ferie di Capalbio e di Cortina per mostrarsi pronti di fronte al dramma. La “manovra”, con le dichiarazioni e i documenti ufficiali, gli emendamenti annunciati e quelli ritirati, il seguito nei diversi aggiornamenti che porteranno alla discussione in Parlamento, domina il dibattito interno, spesso offuscato dai fatti internazionali. Patrimoniali, annunci di condoni (nonostante gli ostacoli posti dalla Corte di giustizia europea a questo tipo di misure), contro-proposte da parte dell’opposizione, dibattiti surreali e tristemente uguali a quelli di molti anni fa sul dramma dell’evasione fiscale e sulla distanza ragguardevole che ci separa da un principio almeno teorico di equità nel prelievo stanno contribuendo a ricondurre il tutto al punto di partenza. Un dibattito perenne ed estremo lanciato a mille che rischia di non approdare a nulla o quasi. Con proposte a dir poco variegate: sulla soglia del reddito cui si applicherebbe un reddito di solidarietà (abbandonata quella originaria dei 90.000, si è arrivati a parlare di 120.000, 150.000, 200.000 euro, a dispetto da quanto sostenuto con fermezza dalla presidente di Confindustria Marcegaglia. Ma anche sulla percentuale del prelievo: lo 0,95, lo 0,6, lo 0,17%).

Si prenda, fra i tanti, il caso dell’abolizione degli “enti inutili”. O, come dicono alcuni, un taglio netto di risorse basato sulla “reingegnerizzazione” degli enti locali. Le province, i piccoli comuni. Incredibile, se non fosse vero, che personaggi della politica con responsabilità di peso annuncino con nonchalance la chiusura delle prime, che fosse per loro potrebbero sparire già con l’inizio dell’imminente anno scolastico. Non un programma, opportunamente diluito nel tempo, che preveda il ricollocamento del personale, politico e amministrativo, delle funzioni e del relativo indotto in altri settori cruciali della vita pubblica. E di opportune distinzioni, fra caso e caso, fra territorio e territorio. Bensì un dettato imperativo: le province non servono, rappresentano il culmine dello spreco, vanno chiuse. Per non parlare dei piccoli comuni, quelli dove l’indennità di un assessore è pari a settanta euro e lo stipendio del sindaco è di poco superiore ai mille (naturalmente lordi). Ricordiamo quanto poco tempo è passato dalla creazione di nuove province, mentre la politica pensa all’abolizione di tutte? Le più recenti, Barletta-Andria-Trani, Fermo e Monza-Brianza, sono operative solo dal 2009.

Difficile, in questo scenario schizofrenico, ipotizzare ragionevolezza, anche quando siano disponibili merito e competenza. Qui sta uno dei pericoli maggiori dell’emergenza: l’indisponibilità a ragionare per guardare oltre i vincoli temporali, e oltre il capitolo, troppo spesso strumentalizzato, dei soldi che non ci sono. L’incapacità di pensare anche (o soprattutto) al Paese in cui dovrà vivere chi verrà dopo questa classe politica. Ma questo, naturalmente, non è un problema attuale.